Etienne Balibar: «Il fantasma del corpo estraneo»

di Fabienne Brugèn e Guillaume Le Blanc (in Tysm.org, ottobre 2018)

In un recente contributo pubblicato sul quotidiano Le Monde, intitolato Pour un droit international de l’hospitalité poi tradotto in italiano dal manifesto, Etienne Balibar ha preso posizione sull’“ecatombe quotidiana” che da tempo colpisce migranti e richiedenti asilo nel mar Mediterraneo. Nell’articolo Balibar denuncia la complicità attiva di Stati che “istituiscono o tollerano pratiche di eliminazione che la storia giudicherà senza dubbio come criminali” e contro tutto ciò propone un “diritto internazionale dell’ospitalità” che riempia di sostanza la Dichiarazione universale dei diritti.
L’articolo sviluppa alcuni dei temi presenti nell’intervista che qui traduciamo. L’intervista, rilasciata a Fabienne Brugière e Guillaume le Blanc, fa parte dello stesso cantiere di ricerca in cui il filosofo francese sta tentando di costruire un concetto di ospitalità all’altezza della nostra crisi globale.

Con l’accordo di Etienne Balibar, traduciamo l’intervista per gentile concessione della rivista Esprit, che l’ha pubblicata sul numero di luglio/agosto 2018. La traduzione è Alessandro Simoncini.

 
La crisi dell’ospitalità europea è legata al riarmo delle sovranità nazionali e alla latitanza dell’Europa?

È imprescindibile prendere come punto di riferimento ciò che accade, ciò che non accade e ciò che potrebbe accadere in Europa. Alcuni sono più impegnati di altri nella solidarietà con i migranti – forse bisogna dire con i “rifugiati” – individualmente o con la mediazione di un’associazione, ma in quanto cittadino europeo penso che quella dei migranti sia una questione a cui è impossibile sottrarsi.
Se c’è qualcosa di nuovo rispetto agli scioperi della fame degli occupanti della chiesa di Saint-Bernard nel 1996[1]è l’europeizzazione – a quel tempo questa di fatto mancò e la contestazione rimase su scala locale. Nella percezione che ne avevamo e che ne avevano gli stessi sans-papiers, gli interlocutori erano lo Stato e la società francese. Oggi lo è anche l’Europa, in modo immediato e visibile. Il conflitto, il blocco e perfino l’oscenità a Calais sono dovuti al fatto che, pur rimpallandosi periodicamente la responsabilità, Francia e Inghilterra sono di fatto gli attori congiunti di un malfunzionamento totale delle strutture amministrative e politiche di regolazione della mobilità. Sul piano dell’etica e della politica esistono aspetti criminali, o in ogni caso violenti e oppressivi, che si accompagnano all’interminabile aggravarsi dei drammi della traversata. Questi aspetti sono conseguenza degli interventi francesi ed europei sull’altra sponda del Mediterraneo – in Libia ad esempio – e a loro volta toccano la politica e le opinioni pubbliche europee. La cancelliera tedesca ha preso una decisione unilaterale, che io trovo giusta,  per fronteggiare la crisi dei rifugiati siriani in particolare. Questa decisione è stata immediatamente seguita, in forme ogni volta diverse, da quella del respingimento adottata da tutti i governi europei (tra cui quello francese), cosa che a sua volta ha determinato le difficoltà della politica tedesca e il massiccio degrado della gestione europea del problema. Senza dimenticare il contesto nazionale, il riferimento europeo è diventato assolutamente imprescindibile.
L’intera questione va contestualizzata nella zona euro-mediterranea, o su questa frontiera geo-economica, geo-culturale e geo-politica di cui noi occupiamo una sponda mentre una parte considerevole dei migranti e dei rifugiati viene dalla sponda sud. Inoltre il pianeta intero entra in una fase nuova della sua storia: una fase nella quale si registra una mutazione sempre più brutale del regime di mobilità. Questo impone vincoli materiali molto forti alla politica. Il capitalismo postcoloniale non ha più la stessa “legge di popolazione” del capitalismo dei periodi precedenti. Tutto ciò coinvolge questioni relative al lavoro, alle disuguaglianze, alla demografia, agli spostamenti di popolazione, che non sono il prodotto di una strategia ma adempiono nuove funzioni e mettono in scacco alcune strutture di socializzazione.

Lei evoca l’“aspetto criminale” di quanto accade a Calais: come distinguere quello che è etico da quello che è politico?


Bisogna ripartire dalla categoria dell’ospitalità, che ha l’immenso vantaggio di essere non decidibile dal punto di vista di questa scelta tra l’etico e il politico. Innanzitutto non si può dividere l’etico dal politico in modo meccanico, mettendo la soggettività dal lato dell’etico e la materialità dal lato del politico. L’ospitalità comporta al contempo un aspetto soggettivo e uno oggettivo. Si parla di ospitalità fin dai tempi più antichi nel quadro dell’“accoglienza allo straniero”, che si tratti di un individuo o di un gruppo[2]. Dal punto di vista oggettivo ci si chiede: com’è accolto lo straniero che arriva – non residente di un oikosparticolare, non stabile, non sedentario? Da chi è accolto e in quali condizioni? Ci sono delle istituzioni per questo. Ma è sorprendente che la situazione tipica sia quella dell’eccesso o del debordare da una normale situazione di spostamento o di emigrazione a circostanze eccezionali, sia dal punto di vista della massa che da quello della gravità delle cause. Non ci si può quindi accontentare delle regole stabilite: c’è da chiedersi come far fronte all’imprevisto e portare soccorso a quelli che non erano stati anticipatamente inclusi nel regime ordinario della circolazione delle persone.
L’aspetto soggettivo dell’ospitalità ha a che vedere con il fatto che questa è una disposizione o una virtù, nel senso antico del termine. Non c’è ospitalità senza ospiti, sostenuti o no da associazioni, chiese, movimenti politici. Alcuni individui prendono l’iniziativa di aprire le loro porte o accogliere a casa loro. L’ospitalità ricopre una gamma di situazioni, di comportamenti e, eventualmente, di rischi che vanno dall’uscita dal tran tran quotidiano e dall’egoismo domestico alla protezione delle persone in pericolo di morte. L’ospitalità è anche un’operatrice di interazione permanente tra l’etico e il politico. Affrontare il problema dell’ospitalità (gestione delle popolazioni, disposizioni prese dallo Stato o imposte allo Stato, trasformazione dei quadri giuridici della mobilità delle persone) implica che la politica interiorizzi un imperativo etico e, di conseguenza, ponga di nuovo in modo massiccio e urgente tutte le questioni del conflitto di valore nel campo politico. In nome di quali valori alcuni rifiutano questo imperativo? Che cosa bisogna pensare di questi valori? Il nazionalismo è uno di questi: Marine Le Pen dichiara che il suo primo dovere è proteggere l’“identità” della comunità nazionale a cui appartiene.
Facendo mio quanto ha scritto Derrida, ho tenuto una relazione su ciò che ho chiamato “da un Altro, l’altro” (“d’un Autre, l’autre”)[3]. L’etica si definisce fondamentalmente per una certa responsabilità incondizionata. Scrivere “ogni altro è tutt’altro” (“tout autre est tout autre”)è un modo di rifiutare che entri in gioco il buon Dio, che lo straniero sia non solo la figura del prossimo ma il volto di una domanda trascendente. Io mi sono impegnato a mostrare che l’altro, verso il quale facciamo esperienza di una responsabilità etica infinita o incondizionata, non va definito o percepito come il volto di Dio ma sempre nei termini di una situazione politica determinata. È l’altro della differenza sessuale, l’animale o lo straniero in Derrida. Quando si pone la questione etica dell’accoglienza dell’altro, si affronta sempre una situazione politica concreta. Non si tratta qui della confusione tra problemi etici e politici, ma il loro carattere di inseparabilità.
Kant ha posto al cuore del diritto cosmopolitico solo ed unicamente l’ingiunzione all’ospitalità, e questo in termini di una bruciante attualità. Dire che il nocciolo della questione consiste nel non trattare lo straniero da nemico entra oggi in particolare risonanza con il neorealismo europeo che si cristallizza su scala continentale come ideologia neofascista. Io mi dichiaro kantiano in materia[4]. Ma il diritto cosmopolitico e l’ospitalità sono totalmente spurii. Il momento dell’Übergang, il passaggio da un modello trascendentale a un altro, lo scivolare del diritto nella moralità e della moralità nel diritto, è sempre la cosa più interessante: Kant ha saputo descrivere qualcosa che non appartiene né alla pura moralità, né alla politica nel senso pratico del termine. Per progredire, a partire da ciò, bisogna rimettere in questione il formalismo metagiuridico di cui Kant si è servito e installare il diritto cosmopolitico tra il diritto politico e la moralità universale.
Kant pensa l’ospitalità nel quadro di un contratto tra repubbliche, ma questo non potrebbe funzionare oggi, come si vede con l’espulsione dei richiedenti asilo del Sudan…
Bisogna collegare gli aspetti limitanti del dispositivo kantiano a un certo contesto: Kant è anticolonialista e si domanda a che titolo gli europei vadano in giro per il mondo. Il problema è posto in termini di circolazione (dei beni e delle persone). In questo modo Kant definisce l’ospitalità solo come un diritto di visita e questo è uno dei limiti principali del suo dispositivo, che ha un aspetto filisteo. Se lo straniero viene come ospite il dispositivo funziona, ma se viene per insediarsi non funziona più. Kant non mette in discussione questo aspetto, perché ha avallato una definizione contrattualista dello Stato.
D’altro canto, proprio perché il diritto cosmopolitico non rientra nelle competenze della politica interna e della sovranità degli Stati, dopo la Rivoluzione francese Kant ha rinunciato a un’autorità politica mondiale che potrebbe imporre agli Stati ordini calati dall’alto, come in una monarchia universale. Bisogna allora che gli Stati decidano tra loro, in comune accordo, di sottomettersi – tutti insieme o gli uni in rapporto agli altri – a un’obbligazione universale e umanitaria che restringe la loro sovranità. Come in Hobbes il Leviatano si costruisce attraverso una decisione tra individui che si mettono d’accordo per rimettersi all’autorità di un sovrano che non sarà tenuto in alcun modo a rispondere, allo stesso modo in Kant gli Stati riconoscono un’obbligazione che non è di carattere statale.

Intratteniamo un rapporto neo-razzista con i migranti?


Nel contesto delle elezioni comunali di Dreux del 1983 in cui venne eletto sindaco un candidato del Front National, ho potuto affermare che eravamo tornati a un razzismo puro e semplice e non a un neo-razzismo[5]. Il mio incontro con Immanuel Wallerstein, un marxista altermondialista la cui rappresentazione della storia del capitalismo non era incentrata sul rapporto di classe ma sui rapporti geografici di dominio, ha giocato un ruolo importante nell’elaborazione di questa idea. Alcuni autori anglosassoni, come la sudafricana Norma R. A. Romm[6]o gli allievi caraibici di Stuart Hall, che hanno studiato le ibridazioni e le conflittualità razziali[7], hanno finito per convergere con autori francesi come Pierre-André Taguieff o Colette Guillaumin, che hanno interrogato la trasformazione del discorso razzista[8]. In effetti il razzismo si perpetua, cambiando discorso, oltre le confutazioni di cui è stato oggetto dopo la Seconda Guerra mondiale. Véronique de Rudder ha scritto un formidabile lavoro sullo statuto di immigrato della popolazione francese[9]. Gérard Noiriel ha comparato sistematicamente quello che accade con gli algerini e i neri a quello che è accaduto con gli italiani, i polacchi e gli spagnoli, spiegando che le manifestazioni di razzismo erano state altrettanto violente con dei “buoni cattolici”, rimettendo in causa la cosiddetta “incompatibilità culturale”[10]. Il termine “immigrato” è diventato un insulto, uno stigma, in una fuga metonimica: “«immigrato» designa il nome della razza”. Lo schema genealogico di una qualità o di una caratteristica ereditaria che serve a operare discriminazioni mi aveva molto sorpreso all’epoca della Marcia dei Beurs: dei cittadini francesi della seconda o terza generazione venivano sempre caratterizzati come “immigrati”, come se la qualità di immigrato si ereditasse in modo genealogico. Questo riproduce una segregazione che non è l’apartheid, ma che costituisce una rottura significativa con il principio dell’universalismo repubblicano. Forse esistono dei comunitarismi da parte delle popolazioni discriminate, di origine straniera, con indicatori culturali e religiosi particolari, ma prima di tutto c’è uno straordinario comunitarismo, ossia un razzismo di Stato e di società, che consiste nell’assegnare delle persone a una comunità.

Si può ancora parlare di “razzismo di Stato” oggi?


Bisogna cercare di caratterizzare il nuovo rapporto che la questione della migrazione intrattiene con la formazione discorsiva che noi chiamiamo “razzismo”. In Razza, nazione, classeavevo sostenuto l’idea che il razzismo è un supplemento o un eccesso di nazionalismo. Il razzismo è un sistema di rappresentazioni essenzialiste e comunitarie senza il quale l’unità, l’indivisibilità, la coerenza organica della comunità nazionale non riuscirebbe a imporsi ai suoi stessi difensori. Allora vedevo le cose in un rapporto storico e simbolico pressoché esclusivo con il problema dell’identità nazionale. Oggi questo vale più che mai: i razzisti non fanno che riaffermare il valore dell’ “identità nazionale”. Ma inizio ad avere dei dubbi e discuto con alcuni intellettuali provenienti dalla colonizzazione. Souad Lamrani, una giovane filosofa che lavora sulla frontiera, rimprovera alla mia idea di “excès intérieur” di promuovere la nazione: lei ritiene che ogni idea di nazione, ogni nazionalismo, sia fondamentalmente razzista senza bisogno di supplementi. Quando le ricordo la lotta di liberazione nazionale algerina, lei mi risponde che il verme era nel frutto: il nazionalismo algerino, mi dice, era fin dall’inizio sessista, razzista, anti-cabilo…  
Cambia il vocabolario da“immigrato” a “migrante”?
“Migrante” non è lo stesso che “immigrato”. Tutto è molto confuso. Perché le persone sono razziste? Quali sono i meccanismi? Quali le paure? Bisogna identificarle e comprenderle. La paura è che la gente si insedi: è il fantasma del corpo estraneo, la cui definizione è sempre arbitraria. Nelle discussioni sull’antisemitismo, per esempio, io resisto all’idea che gli ebrei sono il bersaglio dell’antisemitismo ma che quel bersaglio potrebbe essere chiunque altro. Dietro c’è pur sempre una storia, una teologia. Resta vero che la costruzione ideologica del nemico interno, del corpo estraneo, del virus, tutta la fantasmatica dell’immunità, che è l’altra faccia dello schema genealogico, si elabora intorno alla paura – eventualmente fabbricata e sempre manipolata – che le persone si installino. Oggi si è alzata la soglia della paura: la paura non è più quella che si installino, ma semplicemente che arrivino, che ci siano – malgrado il loro numero esiguo e il loro collocamento nei quartieri… Si è passati dalla statica alla dinamica: il pericolo non è più l’immigrato, ma il migrante.
Accade perché il migrante non è più dotato di un attributo sociale legato al lavoro, per essere diventato trans-classe? I migranti possono riappropriarsi del termine “migrante” come i Beurssi sono riappropriati d questo termine con la Marcia dei Beurs?
L’orgoglio del nome ha molte stratificazioni, ma è in effetti fortemente legato alla questione del lavoro. L’orgoglio professionale dei lavoratori è una molla molto antica e permanente delle rivendicazioni di uguaglianza e cittadinanza. Con il neoliberalismo tatcheriano – e il presidente Macron si prepara ad essere la Tatcher francese – non si trattava semplicemente di ricreare insicurezza, di svalorizzare i salariati e di rompere la resistenza dei sindacati. I film di Ken Loach non parlano d’altro. La classe operaia tradizionale è animata da un risentimento mostruoso proveniente dal fatto che la condizione di lavoratore non è più riconosciuta come una componente del destino nazionale. Gli immigrati hanno rivendicazioni legate al lavoro ma anche all’elemento postcoloniale, che non è la rivincita né la domanda di riparazione: essi chiedono di essere trattati con dignità.
Il razzismo europeo di oggi è massicciamente nazionalista. Però tornano anche cose anteriori: il discorso dell’ “identità minacciata”, ma anche quello della “razza in pericolo”. In altri termini, la sfida principale è quella delle frontiere: il libro di Wendy Brown sui muri termina con un passaggio psicoanalitico-femminista sul fantasma di penetrazione del corpo estraneo[11]. Ma l’accento è un po’ spostato: il fantasma del corpo estraneo è quello dell’immunità, secondo una metafora pseudo-biologica; c’è l’idea che siamo un corpo sano e che bisogna fare attenzione al fatto che dei germi di decomposizione non si introducano in noi. Con la questione della frontiera scatta il panico dell’apertura, del “corpo senza organi” – come diceva Deleuze -, della scomparsa dei limiti del “noi”, dell’individuo collettivo. Viviamo nel panico dei flussi: i capitali circolano, i posti di lavoro se ne vanno, i migranti e i rifugiati affluiscono; tutto quello che dovrebbe restare all’interno fugge, mentre quello che dovrebbe restare all’esterno entra senza ostacoli…
Nel 1995, quando il Front National ha conquistato delle municipalità nel sud della Francia (in particolare Toulon), Jean Viard e altri responsabili del dipartimento culturale di Châteauvallon hanno organizzato un convegno. Io ho parlato della “sindrome d’impotenza dell’onnipotente”: i cittadini hanno la sensazione che lo Stato, questo dio mortale che protegge il territorio nazionale, sia diventato impotente perché i flussi, tra cui le migrazioni, sfuggono al suo controllo. Secondo questa sindrome, non solo lo Stato non ci proteggerebbe più dai rischi economici, ma sarebbe anche diventato lo strumento di questa apertura generalizzata delle frontiere che avrebbe per conseguenza la dissoluzione dell’identità nazionale. La vera questione è quindi quella di sapere come resistere allo sconvolgimento delle condizioni economiche e culturali prodotte dalla globalizzazione. Non è certo rinforzando le frontiere e costruendo un Leviatano di cartone che si riprende in mano un certo numero di leve della politica – e non solo dell’ospitalità -, ma creando una collettività di cittadini, eventualmente transnazionale. A questo fine, invece di buttarsi a capo fitto nei riflessi identitari, bisognerebbe che le persone si convincessero che si può fare politica insieme ai migranti e ai rifugiati. Per questa ragione, la Germania mi ha dato delle speranze: la sua politica parte da una reazione morale, ma l’effetto concreto è quello di produrre un’azione comune tra persone che si trovano ai due lati della barriera geografica ed etnica. Non credo alla capacità dei migranti di imporre delle decisioni con i loro soli mezzi, bisogna che i cittadini europei trovino un terreno d’intesa con i migranti.
Lei dice che le alleanze ridisegnano delle possibilità politiche, ma che cosa pensare della criminalizzazione del migrante o di chi gli viene in aiuto?
Il vecchio marxista che sono non smette di tornare ai fondamentali del comunismo: il proletariato, l’internazionalismo, la democrazia partecipativa, sui quali Marx ha oscillato anche se la questione dello sfruttamento è sempre stata al centro dei suoi propositi. Con la democrazia Marx si è sovraesposto:  a volte spiega che è la Comune, a volte scrive che è uno strumento di potere. Nel Manifesto del partito comunista (1848) l’internazionalismo è una conseguenza della lotta contro il capitale. Evidentemente, se c’è una cosa che la storia ha rifiutato è che gli operai non hanno patria[12]. Sandro Mezzadra è tra quelli che pensano che il nuovo proletariato è costituito dai migranti o dai nomadi. Si arriva a questo momento della storia dell’umanità in cui il rapporto tra nomadismo e territorialità si rovescia: la condizione umana è diventata fondamentalmente nomade, da qui l’idea che i migranti sono virtualmente il nuovo soggetto politico. Per altri bisogna mettersi al servizio del destino di cui i migranti dovrebbero essere i portatori. Quello che è importante è uscire dal discorso vittimario sui migranti: essi non sono corpi infelici, sballottati, senza difese, sacrificati, in balia dei passeurse della polizia militarizzata degli Stati europei; al contrario, elaborano strategie, costruiscono solidarietà e inventano forme di socievolezza collettiva: sono degli attori e non solo degli oggetti.
L’ospitalità presuppone dei luoghi in cui venga resa manifesta l’espressione “democratizzare le frontiere”, che pure è in sé insufficiente. Si tratta di far sorgere un demos, un attore politico. Dal momento che la posta in gioco è lo statuto della frontiera, occorre che questo attore sia misto, composito. Ci sono già azioni di solidarietà esposte a tutti i rischi. Alcuni attori hanno istituito strutture sociali, culturali, civiche, di cui gli occupanti stessi si fanno carico, in sinergia con collaboratori esterni. In queste condizioni, i migranti non sono più considerati come degli infelici, degli oggetti che la polizia e il governo possono cancellare di punto in bianco. I migranti ci sono perché hanno costruito qualcosa. Questa costruzione è necessariamente il prodotto di un incontro che è la chiave dell’ospitalità. Con i collettivi dei sans-papiers, però, non siamo riusciti a costruire la reciprocità militante che permetterebbe di lavorare alla questione delle frontiere[13].  Non si può essere ottimisti su quello che accade in questo momento o su quello che accadrà in Europa, ma non si può nemmeno dire che non esistono germi di questa nuova cittadinanza. Cittadinanza è una parola troppo grossa, perché è associata all’istituzione, ma in realtà si tratta di una pratica[14]. La cittadinanza non presuppone l’appartenenza a una comunità storica definita, ma dipende semplicemente dall’estensione del “diritto di avere diritti”[15]. Una posta in gioco assolutamente cruciale è che ci siano voci ibride, alternate. A Calais e per i Rom, qualcuno presta la sua voce ai migranti ma non è sufficiente. Servono traduttori, ma non bisogna nemmeno che gli interpreti detengano il potere. E questo pone la questione della sfumata linea di confine tra responsabilità di gestione e manipolazione[16].

NOTE

[1]Su quegli eventi cfr. almeno Etienne Balibar, Monique Chemilier-Gendrau, Jacqueline Costa-Lascoux, Emmanuel Terray, a cura di,
Sans-papiers, l’archaïsme fatal,  Paris, La Découverte, 1999 e Etienne Balibar, Ce que nous devons aux « Sans-Papiers », in “eipcp”, 1, 1996,(ndt).
[2]Cfr. J. Derrida, De l’hospitalité, Paris, Calmann-Lévy, 1997.
[3]E. Balibar, Jacques Derrida. D’un Autre l’autre, in Politiques de Derrida,“Ethique, politique, religions”, 1, 2018, pp. 23-44 (ndt).
[4]Id., Nous, citoyens d’Europe ? Les frontières, l’État, le peuple, Paris, La Découverte, 2001; tr. it. Noi cittadini d’Europa. Le frontiere, lo Stato, il popolo, Roma, Manifestolibri.
[5]Cfr.  E. Balibar e Immanuel Wallerstein, Race, nation, classe. Les identités ambiguës [1988], Paris, La Découverte, 2007; tr. it.Razzanazioneclasse: le identità ambigue, Roma, Edizioni associate, 1991.
[6]Norma R.e A. Romm, New Racism : Revisiting Researcher Accountabilities, New York, Springer, 2010.
[7]Cfr.  David Morley e Kuan-Hsing Chen (a cura di), Stuart Hall: Critical Dialogues in Cultural Studies, New York, Routledge, 1996.
[8]Cfr. Pierre-André Taguieff, la Force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, Paris, La Découverte, 1988; tr. it. La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Bologna, il Mulino, 1994; Colette Guillaumin, l’Idéologie raciste. Genèse et langage actuel [1972], Paris, -Gallimard, 2002.
[9]Véronique de Rudder, Christian Poiret e François Vourc’h, l’Inégalité raciste. L’universalité républicaine à l’épreuve, Paris, Puf, 2000.
[10]Gérard Noiriel, le Creuset français. Histoire de l’immigration (xixe–xixe siècle) [1988], Paris, Seuil, coll. « Points-histoire », 1992.
[11]Wendy Brown, Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, Paris, Les Prairies ordinaires, 2009; tr. it. Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013.
[12] Cfr. Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Border as Method, or the Multiplication of Labor, Durham, Duke University Press, 2013; tr. it. Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2014.
[13]Cfr. Claire Rodier e Emmanuel Terray, Migrations. Fantasmes et réalités, Paris, La Découverte, 2008.
[14]Cfr. Engin F. Isin e Greg M. Nielsen (a cura di), Acts of Citizenship, Chicago, Chicago University Press, 2008
[15]Hannah Arendt, les Origines du totalitarisme [1951], Paris, Seuil, 2006; tr. it. Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2004.
[16]Étienne Balibar, Monique Chemillier-Gendreau, Jacqueline Costa-Lascoux e Emmanuel Terray, Sans-papiers: l’archaïsme fatal, Paris, La Découverte, 1999.