La lotta per il lavoro all’Ilva trova posto in prima fila (ma in sala già scorrono i titoli di coda…)

di F. FRATINI, G. MATTEI e R. FAURE (in Effimera.org, giugno 2017)

Nel ciclo integrato della produzione di acciaio si parte dal minerale ferroso e dal carbone per giungere all’acciaio, passando dalla ghisa che è il prodotto intermedio del ciclo.Il carbone minerale è inadeguato e va raffinato in coke con un procedimento di distillazione a secco per separare il benzene e toglierlo dal ciclo. La produzione di acciaio fa male alla salute. Il benzene è altamente cancerogeno. Veniva utilizzato come prodotto intermedio nell’industria chimica. Attualmente nei paesi sviluppati il benzene è economicamente inutilizzabile per i vincoli di legge sanitari ed ambientali.
All’Ilva di Genova- Cornigliano venne chiuso il laminatoio a caldo per coils (rotoloni di lamiera d’acciaio) nel 1984, la cockeria nel 2002, l’ultimo altoforno nel 2005; è rimasta in opera la laminazione a freddo e le linee di stagnatura e zincatura. Senza il ciclo integrale la produzione d’acciaio probabilmente non ha più senso economico. La elaborazione di semilavorati già in acciaio come è in atto a Cornigliano da una decina d’anni può essere fatta ovunque, non giustifica l’utilizzo di una preziosa area portuale, in mezzo ad una città densamente popolata con carenza di spazi pianeggianti.
La concorrenza di acciaierie in paesi che hanno vincoli ambientali di legge molto meno severi (Turchia, Cina, etc.) rende inoltre relativamente più costosa la produzione in Italia e nei paesi più sviluppati. Per i paesi come gli Usa, che possono avere un interesse strategico-militare ad avere una propria produzione d’acciaio, i maggiori costi possono essere sostenuti dallo Stato (che non ha i vincoli agli “aiuti di stato” vigenti nell’Ue) per scelta politica, mentre per l’Italia che in politica internazionale è subordinata e conta poco, che ha il “divieto Ue di aiuti di stato”, la possibilità non si pone.
Queste circostanze manifestano che la scelta di mantenere la produzione a Cornigliano non è di natura economica o concorrenziale. Probabilmente costerebbe meno comprare i semilavorati in acciaio che produrli in Europa.
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La storia della siderurgia italiana, e quella della sua classe operaia, attraversa il secolo scorso e ha il suo cuore produttivo e simbolico a Genova. La realizzazione del “piano Oscar Sinigaglia”, che prevede la collocazione di una fabbrica “americana” vicino al mare, inizia ancora negli anni trenta, in piena autarchia e Patto dell’Asse, e si conclude a metà degli anni cinquanta, in pieno clima di restaurazione post resistenziale.
Lo Stabilimento di Cornigliano, delegazione della Grande Genova a poca distanza dal centro cittadino, viene realizzato sul mare in una piattaforma di cemento armato ancorata su un paio di chilometri lineari di spiaggia. In pochi anni arrivano a popolarlo 6.000 operai, tutti selezionati attraverso le parrocchie e le stazioni dei carabinieri dell’entroterra e delle riviere nonché tramite l’unico sindacato anch’esso “americano” ammesso: la Uil.
Con quattro Altoforni Martin Siemens a ciclo continuo produce la lamiera in coils per tutta la nascente industria italiana di beni di consumo durevole, in particolare –e a prezzi stracciati o meglio “politici”- per la Fiat.
Di lì a poco si svilupperà il polo di Piombino e nasceranno, a immagine e somiglianza, i poli siderurgici di Bagnoli e di Taranto. Lì decine di migliaia di operai turnisti, che guadagnano un po’ più degli altri, lavorano in mezzo alle città di mare e respirano giorno e notte benzene e fumo assieme agli abitanti; ma allora nessuno ci fa caso, è questa della colata continua una nuova e vulcanica natura che si dà per scontata, anzi a colpire l’immaginazione è l’idea di un progresso inarrestabile dove le notti hanno lo stesso colore dei tramonti e il giorno quello sfuocato delle eclissi; e tutto questo in luoghi che erano stati di villeggiatura per i borghesi e di bagni in spiaggia per i proletari. Negli anni sessanta e fino al 1975, per almeno venti anni la produzione industriale conoscerà un boom e alimenterà la concorrenza dell’Italia con le altre potenze industriali europee, in particolare con l’inarrivabile Germania della Ruhr, e con i più abbordabili concorrenti: Francia con le acciaierie della Lorena; e con il Benelux.
Nello Stabilimento –che sta assumendo il nome di Italsider e che a Genova viene chiamato proprio così, “lo stabilimento” senza nulla aggiungere, per definizione- ci sono le “paghe di piazza” e la job evaluation, gli operai ricevono a casa bollettini e strenne a Natale.
Per anni le rappresentanze della Fiom e anche della Fim sono una sparuta minoranza rispetto alla Uil. Sarà proprio per questo che il primo e probabilmente unico intervento militante a lasciare tracce effettive in termini di episodi di autonomia operaia in fabbrica e formazione di dirigenti operai è quello di Gianfranco Faina e del suo gruppo appena espulso o uscito dal Pci. Siamo nei primi anni sessanta, e di quell’intervento vi è un’importante traccia nelle Cronache dei Quaderni Rossi.
Alla fine degli anni sessanta del secolo scorso la Fiom celebra il sorpasso sulla Fim e sulla Uil e attraverso la sua cinghia di trasmissione, il Partito, acquisisce il controllo sulla fabbrica. Anzi proprio l’Italsider, ridimensionatesi o dissoltesi nel frattempo le altre fabbriche di quello che fu il primo distretto industriale italiano, diverrà nel tempo il caposaldo della rappresentanza operaia in città, il fulcro del discorso politico del Pci quale partito di governo in città.
In quel momento l’Italsider, come l’Ansaldo e le altre fabbriche genovesi, sono di proprietà dello Stato, e nessuno, nonostante i primi segni di crisi che risalgono al 1975 all’epoca del primo shock petrolifero, può immaginare che la siderurgia, industria strategica per eccellenza, possa ristagnare e poi fallire lasciando a casa i suoi operai.
Ma così invece è: gli anni ottanta sono segnati da perdite di bilancio crescenti, anche a causa della frammentazione in più stabilimenti, mentre altrove in Europa si mira a concentrare le lavorazioni, e da penose e interminabili trattative per la vendita a industriali privati statunitensi, indiani e tedeschi. Nel 1995 si arriva infine alla cessione dello Stabilimento all’imprenditore bresciano Emilio Riva. Ma ormai, chiusa Bagnoli e chiusi tutti gli altri stabilimenti in Italia (Savona, S. Giovanni Valdarno, Piombino) tranne Taranto e Novi, anche l’Ilva di Cornigliano, che nel frattempo ha cambiato nome, è di troppo.
Nel frattempo, sotto i nostri occhi e senza che ce ne rendessimo conto, la classe operaia a Genova è pressocché scomparsa, statisticamente e politicamente. O meglio, si è trasformata in altra cosa, ma questo è un altro discorso. Una città operaia si è trasformata in una città di servizi e di precari al servizio. Alla fine degli anni novanta sopravvivono solo, fortemente ridimensionati nei numeri, il Cantiere di Sestri e l’Italsider/Ilva.
In particolare l’Ilva sta nel mezzo di aree diventate preziose come banchine potenzialmente destinabili al porto, che di mancanza di spazi soffre molto, al punto da continuare a strapparli al mare (vedi il Porto di Voltri) con costi ambientali sociali ed economici altissimi, by-passando quella cattedrale arrugginita sul mare che ormai lo Stabilimento è diventato.
Nel 1999 viene stipulato, artefici Claudio Burlando e Giuseppe Pericu, l “Accordo di programma” tra enti pubblici e privati sulla destinazione dell’acciaieria di Cornigliano.
È lo sciagurato capolavoro che prolunga l’epoca del “partito operaio” oltre se stessa. Invece di salvaguardare il reddito degli espulsi dal ciclo e riconvertire le aree dopo averle bonificate, si decide di tenere in vita artificialmente una fabbrica inutile e dannosa garantendo contributi pubblici e regalie a un imprenditore privato; ciò all’esclusivo scopo di mantenere a Genova una rappresentanza operaia che giustifichi il discorso politico del ceto di governo, una “rappresentazione della rappresentanza” quindi.
L’accordo prevede: la (poi realizzata) fine del ciclo integrato a caldo di produzione dell’acciaio; la bonifica delle aree del ciclo a caldo per adeguarsi alla legislazione ambientale vigente e la tutela dell’occupazione dei dipendenti Ilva di Cornigliano. Le aree in porto già utilizzate dall’Ilva sono di fatto cedute a Riva con una concessione demaniale di cinquant’anni per un canone che nell’ “accordo di programma” è pari a 1400 lire al metro quadro all’anno! In quel momento i dipendenti “superstiti” sono circa 1.700 e nessuno si pone l’obiettivo di garantire tout court il diritto al reddito degli operai, piuttosto che subordinare quel diritto al mantenimento di una idea della società del lavoro eretta a monumento ideologico condiviso e indiscutibile.
Da quel momento l’Ilva diventa prevalentemente una fabbrica di cassa integrazione, di contratti di solidarietà pluririnnovati, di lavori socialmente utili e altri istituti previsti dalla legge vigente. In compenso gli operai da quel momento si comporteranno come operai, rispettando lo spartito, invece che come precari; vari episodi di lotta operaia si verificano negli anni per reclamare l’integrazione ai contratti di solidarietà.
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Attualmente L’Ilva di Cornigliano ha circa 1700 dipendenti, 700 dei quali con contratti di solidarietà, e un solo reparto operativo, quello della zincatura. La società è commissariata e in amministrazione controllata, l’operazione con Riva è drammaticamente fallita, con i fondi della famiglia all’estero, il disastro ambientale di Taranto (che, fino a quando la magistratura locale non lo ha chiamato con il suo nome disvelandolo come crimine, era un “luogo che dava lavoro a migliaia di persone”), e con lo stabilimento dimezzato di Genova.
Sono riprese le trattative disperate per la vendita dell’Ilva, a chiunque. Ma dell’Ilva fa parte lo stabilimento genovese, con i suoi vincoli di mantenimento dell’occupazione previsti dall’Accordo di programma
È evidente che per trovare un acquirente, lo Stato deve prima sbarazzarsi dell’Accordo di programma, oppure considerarlo nullo in caso di vendita.
Queste notizie sono la scintilla delle attuali giornate di lotta. Scende in piazza una comunità operaia nelle stesse forme in cui sono scese in piazza per un secolo e più le grandi comunità operaie, e questo fa notizia. Ma è la stessa cosa? Non è cambiato nulla?
Anche in questo caso gli operai scendono in piazza come operai, e non come precari. La scena politica nel 2016 è però cambiata, a Genova e in fabbrica. È uscito di scena Burlando, il “Richelieu” della politica locale “comunista” per venti anni.
La “fabbrica” di gran lunga più importante a Genova è il Comune, con i suoi 8000 dipendenti. La nuova strada di Cornigliano è stata intitolata a Guido Rossa, che fu certamente una brava persona e una vittima assurda, ma sul cui “eroismo” il sindacato ha basato negli ultimi trenta anni il proprio invito alla continuità e il richiamo al proprio senso di appartenenza.
Il saldo demografico è inarrestabilmente negativo, nonostante la significativa migrazione che ri-occupa i vecchi quartieri operai trasformandoli in ghetti e generando risentimenti e conflitti con gli antichi e spesso anziani residenti, molti ex operai (i giovani anch’essi migrano da una città condannata a vivere il proprio passato) fino a provocare inquietanti fenomeni di rifiuto del diverso. Nelle fabbriche superstiti nessuno vota più il “disciolto partito comunista” sub specie Pd, ma il Movimento 5 Stelle. E dentro queste fabbriche la Fiom costituisce la stragrande maggioranza, ma a dirigere la Fiom, nella fabbrica e nel territorio, sono oggi dirigenti di Lotta Comunista. E dirigente di Lotta Comunista è anche il console della Culmv, sì proprio la Culmv di Batini.
Oggi Lotta Comunista ha un notevole successo, e partecipa appieno alla lotta per la difesa del lavoro. I posti in prima fila per il film che stiamo raccontando li hanno adesso presi loro; purtroppo il cinema si sta svuotando perché già scorrono i titoli di coda. La pietra tombale del Jobs act conclude la parabola del diritto del lavoro, la finanziarizzazione dell’economia toglie ogni spazio alla mediazione per la mobilitazione di singole fabbriche.
La lotta dell’Ilva si presenta oggi forte ma non inclusiva; chiede, ed ottiene, tanta solidarietà generica, ma non trascina né include.
Con lo sperato intervento finanziario dello Stato rientrerà nei ranghi, in attesa del prossimo atto del nemico a cui ancora resistere, col fine che nulla cambi in peggio (ma nemmeno in meglio).
Genova è uno straordinario laboratorio politico, sarà per le strade strette e le montagne con il fiato addosso al mare.
Ma le scene che accompagnano i titoli di coda della storia del movimento operaio in questa città, quella dello sciopero dei carbunè nel 1912 e del 30 giugno 1960, sono stupefacenti. Se qualcuno fosse caduto in letargia per quaranta anni e si risvegliasse oggi per scoprire che Lotta Comunista – il duro partito leninista fermo alle analisi del 1905 che ha deciso di fare entrismo nel sindacato – guida le lotte dei siderurgici e dei portuali, dopo una marcia durata quaranta anni, appunto, troverebbe difficoltà a raccapezzarsi, prima di contestualizzare la vicenda e di rendersi conto degli incredibili mutamenti della composizione di classe che rendono importante ma marginale la vicenda.
Gli operai dell’Ilva sono da sempre precari, ma sono condannati a lottare come classe operaia con l’elmetto in testa perché da questo dipende la loro visibilità, anche se i registi di scena sono cambiati, prima il Pci e ora il M5S e Lotta Comunista (e i sindacati autonomi per i tranvieri due anni fa).
Noi non possiamo che augurare il massimo della fortuna a questi operai che occupano ad oltranza la fabbrica, che bloccano il traffico cittadino, con manifestazioni di uomini e mezzi meccanici pesanti in forme già sperimentate da ultimo per la analoga crisi alla Fincantieri di Genova-Sestri Ponente; ma non possiamo scattare al “richiamo della foresta” della lotta operaia come se nulla fosse cambiato, ed è cambiato tutto, ogni qual volta una lotta operaia si manifesta, ed è sempre più raro perché non sta più lì la centralità della critica e dell’opposizione al capitale.
Questo gennaio ha riempito le prime pagine dei giornali la stretta di mano tra una poliziotta, che prima si era tolta il casco antisommossa, e un manifestante. Sui giornali cittadini questa stretta di mano è diventata la rappresentazione di una classe operaia immaginaria e reinventata, che nell’occasione ingloba i più fedeli servitori dello Stato tra i lavoratori nell’unità di intenti della difesa del lavoro. Una stretta di mano tra “lavoratori”, tutti hanno commentato soddisfatti. Noi dubitiamo che una agente di polizia possa fare un tale gesto di sua iniziativa. Quindi possiamo partire da tale gesto per aiutarci nell’analisi.
Da un lato immaginiamo cosa sarebbe accaduto se a bloccare per giorni il traffico cittadino e l’autostrada fossero stati dipendenti immigrati della logistica e trasporti, o dipendenti dei call-center, o no-tav. Certamente l’atteggiamento del Governo tramite le forze di polizia sarebbe stato molto diverso. Perché i lavoratori di una azienda ormai economicamente inutile sono molto meno maltrattati di altri lavoratori di settori attivi o in espansione?
Se i dipendenti Ilva salvano anche solo temporaneamente il loro reddito la working class genovese ne gioisce con noi. Ma è una gioia triste, perché ne è chiara la limitatezza nel tempo. E assai limitata è anche la parte di lavoratori sottratta alla dilagante perdita di reddito.
Negli slogan sindacali quella dell’Ilva è una lotta per il lavoro, per salvare il lavoro. Ma agli operai dell’Ilva interessa il reddito, non un lavoro senza prospettive.
Quella dell’Ilva è in realtà una lotta per il reddito, ma gli imprenditori politici di turno gestiscono anche in questo caso la farsa della lotta per il lavoro senza disincanto, e anche questo diventa un caso esemplare di rinuncia ad una prospettiva: la lotta per il reddito unisce tutti i lavoratori, occupati e disoccupati, cittadini e immigrati, con un obbiettivo semplice e potente.
Ma senza l’elmetto da metalmeccanico l’apparato rappresentativo del sindacato non sussiste. È lo spettacolo operaio nella società dello spettacolo declinata nella (ex) industriale Genova, una città antropologicamente operaia.
Il Governo discute di stanziare (per un prestito che probabilmente non verrà mai restituito) 300 milioni di euro per gestire l’Ilva nella fase di transizione-vendita. Se i dipendenti sono 1200, farebbero circa 250.000 euro per ogni dipendente. Darli a loro? Li spenderebbero meglio dei padroni dell’Ilva?
I dipendenti dell’Ilva non hanno sicurezza veruna del reddito futuro, quindi sono innegabilmente precari. Se uniti si vince, l’obiettivo di far cessare la precarietà ottenendo un reddito garantito verrà solo dall’unione cogli altri innumerevoli precari che condividono la loro situazione, magari senza scrittura dell’Ente Teatrale che rappresenta oggi la commedia della difesa del lavoro.
febbraio 1st, 2016