La temporalità meridiana contro lo sfruttamento capitalistico

di LELE LEONARDI (in Commonware.org, ottobre 2015)

Proprio in questi giorni, sulle pagine de il manifesto, Franco Bifo Berardi ha sostenuto che di vita a sinistra proprio non ce n’è, che semmai dovremmo parlare di sopravvivenza, di un tentativo fragile di mantenere aperta “la possibilità di fare del sapere la leva per liberarci dallo sfruttamento”. Non so se l’attivismo pessimista di Bifo sia interamente condivisibile; credo tuttavia che un buon modo per dargli consistenza pratica – cioè efficacia – sia quello di calarlo nell’analisi concreta dei processi di estrazione del valore e dei percorsi di resistenza che li mettono costantemente in discussione.

Per questo mi pare un’ottima notizia l’uscita per Derive Approdi del numero 0 (giugno 2015) della rivista Sudcomune: biopolitica, inchiesta, soggettivazioni. Si parte infatti dalla presa di coscienza che “con il nuovo millennio ci siamo trovati a un punto zero” (p. 3), in una congiuntura storico-politica inedita in cui gli utensili teorici della cassetta degli attrezzi (post)operaista hanno cominciato – alcuni più, altri meno – a girare a vuoto. Crisi categoriale, dunque, alla quale tuttavia reagire con rinnovato slancio piuttosto che con rassegnazione.

Non però uno slancio qualsiasi, frutto di un non meglio precisato ottimismo della volontà. Qui entra in gioco il punto di vista che sorregge l’intera architettura argomentativa della rivista, la prospettiva univoca su cui s’innestano i diversi percorsi di ricerca. Si tratta del Meridione inteso non come luogo fisico o come esclusivo ambito d’indagine, bensì alla maniera di Franco Piperno, che in un recente, bellissimo libro l’ha definito “una comune ed autonoma temporalità, un sentimento del luogo e del movimento, quell’‘aura’ civica premoderna che, forte di una esperienza millenaria, ha resistito all’ideologia del progresso e costituisce ancor oggi il tratto distintivo, quello originario, il legame che riconduce ad unità etico-politica l’interiorità dei meridionali”[1].

Ecco il filo rosso che lega tutti i contributi: radicamento nella singolarità dello sguardo meridiano, apertura al comune che pur trascendendolo ne viene incessantemente trasformato. Anche perché il sud di cui si parla non è solamente quello italiano – facilmente localizzabile –, bensì quello globale, che alligna nei territori metropolitani a qualsiasi latitudine.

La rivista si apre con un contributo di Toni Negri che definisce con grande precisione lo stato dell’arte della riflessione post-operaista: accanto ai dati acquisiti (centralità del comune come esito e condizione dei processi produttivi, persistenza dell’accumulazione originaria, pervasività delle dinamiche finanziarie), rimangono questioni aperte e controverse – una su tutte: la mutazione del concetto di classe in quello di moltitudine. Non c’è dubbio, tuttavia, che chi voglia continuare o ricominciare a ragionare sull’analisi di parte del capitalismo contemporaneo debba passare di qui.

I contributi successivi si dipanano a mio avviso lungo due assi fondamentali: l’analisi non-meridionalistica della gestione capitalistica del Mezzogiorno e l’indagine dei meccanismi di sfruttamento emersi nel XXI secolo.

La prima linea di ragionamento può a sua volta suddividersi in due tronconi: in primo luogo vengono messe a fuoco le dinamiche evolutive del modello di sviluppo che ha travolto il meridione italiano prima attraverso un’industrializzazione monca – essenzialmente funzionale a quella del Nord – e poi tramite un’inclusione violenta nei circuiti finanziari. Carlo Vercellone sottolinea come la strategia fordista elaborata dall’amministratore delegato della FIAT Vittorio Valletta già nell’immediato dopoguerra fosse perfettamente compatibile con il nuovo meridionalismo di Pasquale Saraceno, funzionario di spicco dell’industria pubblica dell’IRI ed eminenza grigia dello SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno). In altri termini, ciò che si è spesso teso a considerare come componenti chiave del ‘ritardo’ e del ‘sottosviluppo’ meridionale – per esempio la sovrabbondanza di manodopera e la ridotta estensione delle relazioni di mercato – risultavano in realtà “formidabili elementi di vivacità per lo sviluppo del fordismo” (p. 76). Insomma: “l’offerta illimitata di forza lavoro proveniente dall’agricoltura meridionale divenne la fonte di un vantaggio considerevole per la competitività del fordismo italiano” (p. 77).

La riflessione di Stefano Lucarelli, che introduce un’“inchiesta permanente” che si protrarrà nei prossimi numeri della rivista, si pone in forte continuità metodologica con l’articolo appena richiamato. Cambia però la collocazione cronologica dell’oggetto: sempre di inclusione subordinata del Mezzogiorno si tratta, ma se prima lo sguardo si soffermava sui circuiti di espansione fordista, ora si ricalibra sulle dinamiche finanziarie del capitalismo contemporaneo. Qui Lucarelli riprende opportunamente il classico di Ferrari Bravo e Serafini[2], adattandolo però alla nuova realtà. Ne emerge un quadro inedito in cui “non è più pensabile che la situazione meridionale italiana sia riconducibile alla sintesi statuale esercitata per mezzo degli istituti di programmazione […] per controllare la conflittualità operaia. Il contesto macroeconomico in cui viene a definirsi la funzionalità dei fattori di produzione meridionali per un modello di sviluppo transnazionale è caratterizzato da una resilienza delle istituzioni creditizie e finanziarie” (p. 36). In altri termini: ciò che in prima approssimazione appariva come sintomo di arretratezza si rivela essere una condizione essenziale della tenuta del sistema.

Su questo sfondo si situa il secondo troncone di questa pista di ricerca, quello esemplificato dalle inchieste politiche condotte da Francesco Maria Pezzulli su informatici e operatori di call center e da Carlo Cuccomarino sulle molteplici lotte ambientali che hanno attraversato la Calabria negli ultimi anni. Nel primo caso si indaga sul campo l’ipotesi di un processo di industrializzazione del lavoro cognitivo, cioè – come si vedrà più nello specifico a breve – di una taylorizzazione forzata di manodopera qualificata, cioè di un esempio lampante di corruzione del comune. “[Essa] avviene quando il sistemista, il programmatore, il tecnico o le altre figure ICT vengono impiegate alla stregua degli operai massa. Il loro potenziale di cooperazione e creatività, in questo modo, viene ristretto nella meccanica delle procedure industriali. Nei fatti, le enormi energie presenti a livello locale in termini di ricerca e sviluppo vengono sottostimate e per lo più distrutte” (p. 42).

L’articolo di Cuccomarino ci presenta un affresco dettagliato e puntuale dei conflitti che in Calabria hanno posto come questione politica lo scempio ambientale. Anche qui si fa riferimento alla corruzione del comune, ma soprattutto ci si focalizza sulle mobilitazioni che vi si sono opposte: “Lottare contro di essa vuol dire riconoscere l’ambiente come una risorsa comune e lottare per la sua organizzazione e gestione in modo comune, a fronte delle brutali trasformazioni vissute nel passato recente, che hanno agitato e agitano ancora lo spettro di una vita insalubre o, peggio, costretta alla malattia” (p. 44).

Il secondo asse fondamentale attorno a cui si articola questo numero 0 di Sudcomune riguarda le nuove forme dello sfruttamento contemporaneo – la loro analisi e la loro critica pratica. Qui va sottolineato che i contributi che compongono questa linea di ragionamento intrattengono un rapporto di stretta prossimità con il ciclo seminariale organizzato da Commonware tra gennaio e giugno 2015 e intitolato “Logiche e forme dello sfruttamento contemporaneo – Oltre la sussunzione?”. Non è infatti un caso che tutti gli autori – Salvatore Cominu, Anna Curcio, Andrea Fumagalli e Federico Chicchi (attraverso un ricca intervista) – abbiano attivamente partecipato al cantiere bolognese di qualche mese fa. Il problema di fondo era ed è costituito dalla tenuta o meno della nozione di sussunzione (e della sua esclusività) nel quadro di un tentativo d’interpretare l’estrazione di valore così come si dà nel XXI secolo. Come è noto, Marx individua due tipologie di sussunzione del lavoro al capitale: quella formale implica che il capitale sottometta a sé, vale a dire includa nel rapporto sociale che lo definisce, modi di essere del lavoro umano che si sono costituiti prima e indipendentemente da esso, e che esso piega ai suo interessi senza modificarne il contenuto. Diversamente, la sussunzione reale del lavoro al capitale rimanda alla determinazione del modo stesso di essere del lavoro da parte del rapporto sociale capitalistico che lo ingloba. Il capitale si appropria quindi, secondo Marx, non soltanto del prodotto del lavoro, ma anche della sostanza del lavoro, che viene così riplasmata. La produzione che ne nasce è dunque specificamente capitalistica, in quanto è il suo stesso contenuto lavorativo che è disciplinato dal capitale.

Di qui sorge la nostra domanda: l’apparato categoriale marxiano, così centrato sulla dinamica salariale e sull’irriducibile separazione tra lavoro e capitale, è in grado di leggere nella loro globalità le forme di sfruttamento contemporanee? Oppure richiede un supplemento teorico che ne tamponi le falle senza disperderne l’indiscutibile efficacia?

Ovviamente il dibattito è aperto e articolato, troppo ricco per poter essere riportato in questa sede. Basterà ricordare che Cominu individua nel processo di industrializzazione del cognitivo – con parallela “lavorizzazione di capacità umana” (p. 28) – una modalità di trasformazione della sussunzione reale che presenta una distintiva “logica iper-industrale”(p. 26). Fumagalli sottolinea invece la centralità dell’“allargamento della base dell’accumulazione […] È proprio considerando anche la riproduzione sociale che entriamo in una nuova fase della sussunzione del lavoro al capitale” (p. 16-17), una fase che l’autore definisce vitale. In maniera non troppo dissimile si concentra sul terreno della riproduzione anche Curcio, benché il suo intervento interroghi più direttamente degli altri il ciclo di lotte globali degli ultimi anni – Occupy, Indignados, Gezi Park, Arab Springs e Passe-livre in Brasile – arrivando a formulare l’interessantissima ipotesi di un ciclo della soggettività, “nel senso che nelle differenze che hanno segnato le lotte nella crisi è possibile individuare una comune composizione soggettiva” (p. 64). Una tale dimensione comune, non poteva che declinarsi diversamente a seconda delle situazioni: Curcio segnala così un discrimine di fondo, quello tra contesti di ‘aspettative crescenti’ – suscettibili di generalizzazione ricompositiva – e contesti di ‘aspettative decrescenti’ – maggiormente a rischio di derive corporative e segmentarie. Infine, Chicchi insiste sul momento della discontinuità segnalando che, nella fase attuale, “al paradigma di estrazione di valore marxianamente descritto attraverso il concetto di sussunzione si accompagna una nuova modalità che non abbisogna più di essere immediatamente riconoscibile come lavoro” (p. 60)[3].

In conclusione, il numero 0 di Sudcomune rappresenta un ottimo antidoto alla rassegnazione politica e un modo intelligente per continuare a cercare le crepe del sistema capitalistico e le tecniche per allargarle. Ribadisco: la sua uscita è davvero un’ottima notizia.

 


[1] Il libro a cui ci riferiamo è Briganti o emigranti. Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, a cura di Orizzonti Meridiani(Ombre corte, 2014). La prefazione di Piperno, da cui è tratta la citazione, è disponibile online su Commonware.

[2] Ferrari Bravo L. e A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano (Ombre corte, 2007 [1972]).

[3] Qui Chicchi allude al concetto di imprinting, elaborato insieme a Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, presentato come work in progress dapprima nel ciclo seminariale di Commonware e in seguito al convegno romano di Historical Materialism (17-19 settembre) – titolo dell’intervento: Logics of Exploitation: Subsumption on Labor Under Capital and Capitalistic Imprinting of Subjectivity.