Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo

Pubblichiamo il capitolo 17 del libro, curato da Salvatore Palidda, Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel MediterraneoDeriveApprodi, Roma 2018


tratto da Effimera, giugno 2019

Quali insegnamenti trarre dagli studi su antropocene, capitalocene, necropolitica, per la resistenza ai disastri ed elaborare alternative?


di Salvatore Palidda


Cercherò qui di sintetizzare gli aspetti essenziali del dibattito che da ormai molti anni riguarda il cosiddetto cambiamento dell’era geologica ed ecopolitica, facendo riferimento ai principali autori coinvolti dei quali segnalo alla fine alcuni scritti peraltro gratuitamente scaricabili dal web e in particolare da qui: http://effimera.org/categoria/ecologia-politica/.

Questo dibattito è di cruciale importanza per la ricerca di alternative ai meccanismi economici che creano i disastri, alternative che sono lo scopo prioritario delle resistenze alle quali è dedicato questo libro. I contributi di questi e altri autori importanti (che qui sarebbe troppo lungo citare ma che si trovano nei riferimenti dei testi scaricabili) non sempre sono di facile lettura per quanti partecipano alle resistenze. Diversi studiosi, infatti, restano spesso ingabbiati nel loro ambito disciplinare o tecnico-specialistico; si tratta di un limite che, come abbiamo accennato già nell’introduzione, impedisce alle resistenze di accedere e disporre dei saperi e delle conoscenze indispensabili per combattere e reagire ai disastri ed elaborare alternative. È ovviamente sempre auspicabile che gli accademici, i tecnici e gli esperti che condividono queste preoccupazioni riescano a confrontarsi con chi partecipa alle resistenze e non solo fra di loro (questo vale, naturalmente, anche per chi scrive).

Sebbene i media e l’opinione pubblica sembrino ormai coinvolti nel dibattito sul cosiddetto cambiamento climatico e sull’Antropocene, cioè la nuova era geologica o ecopolitica, fatica a emergere una riflessione attenta su come le popolazioni vittime dei vari disastri recepiscono tale dibattito. Rispetto ai disastri provocati dalle attività industriali, diversi lavoratori dicono:

Da sempre si muore sul lavoro per incidenti, malattie, fatica… ora è peggio di prima? In tanti casi sì, in altri forse no… ma poi si muore per strada o dopo che si va in pensione e muoiono anche bambini e persone che in fabbrica non ci sono mai stati… il lavoro o la salute? No, qua siamo da sempre con la pistola puntata per rubarci il lavoro e la vita, anche ai nostri familiari. Ricordiamo fra l’altro che gli aspetti buoni della legge sulla sicurezza sul lavoro e i dispositivi previsti da questa spesso non sono applicati o non sono messi in funzione per non rallentare la produttività (vedi le testimonianze dei lavoratori raccolte durante una ricerca in Liguria). (1) 


Sono favoriti, invece, gli affari delle imprese che vendono nuove tecnologie per tali dispositivi e le certificazioni. Ancora una volta si constata che mancano sempre più le tutele che dovrebbero essere garantite dallo stato di diritto democratico non solo perché alcuni operatori delle agenzie di controllo (e delle forze di polizia) e anche dei sindacati sono corrotti, ma perché queste agenzie sono indebolite e i lavoratori e la popolazione hanno scarse possibilità di resistere. La contrapposizione fra diritto al lavoro e diritto alla salute e alla vita (non solo a Taranto o nel siracusano e non solo in Italia) è uno dei più gravi crimini prodotti da autorità pubbliche asservite agli interessi di imprese mortifere.

Un sindacalista francese – e non è il solo a pensarla così – ha attaccato violentemente i sostenitori della decrescita invocando Marx e l’emancipazione dei lavoratori per affermare che la questione cruciale sarebbe una sola: il potere. un’argomentazione circostanziata e in parte condivisibile, ma che resta comunque ancorata a quel credo nelle forze produttive come motore della storia, del progresso e dell’emancipazione, una fiducia che finisce per sostenere tutte le attività e quindi anche quelle che seminano morte. In altre parole, per questi “ortodossi” la critica di classe si focalizza sul potere capitalista, aspetto che ricorda il teorema leninista-stalinista e quel marxismo che auspicava il teorema della rivoluzione borghese come premessa indispensabile a quella socialista (conducendo, purtroppo, alla dittatura della nomenklatura non meno criminale del dominio delle lobby neoliberiste). Appare allora evidente che l’attribuzione del cambiamento di era geologica genericamente alle conseguenze delle attività umane tout court è falsante poiché nasconde le responsabilità che sono comunque sempre dei dominanti, intenti soprattutto a realizzare profitti a discapito di chi non ha potere. Dubitiamo, quindi, della lettura di Bruno Latour (2017) che pensa che il superamento del conflitto destra-sinistra e locale-globale possa condurre all’adesione a una “comunità di terrestri” consapevoli di dover condividere e impegnarsi per preservare il suolo sul quale vivono. In base a quale “miracolo” dominanti e dominati dovrebbero approdare insieme a un tale obiettivo? Sono dunque benvenuti quegli studi che propongono di parlare di capitalocene anziché di antropocene, quindi del rischio di catastrofe planetaria come conseguenza dello sviluppo capitalista e in particolare dell’attuale fase neoliberista. Al di là delle numerose varianti terminologiche – in diversi casi interessanti –, questa interpretazione appare indiscutibile innanzitutto perché è dimostrata dalla storia; e intendiamo la Storia (non falsata e non falsante) che insegna a leggere con attenzione le correlazioni tra i diversi aspetti dei processi di trasformazione continua dell’organizzazione politica della società, tra continuità, innovazioni e adattamenti. Insomma, la storia politica è indispensabile nello studio e nell’interpretazione rigorosa dei processi nei quali si intrecciano tutti le componenti che partecipano all’organizzazione politica della società: l’accumulazione dei saperi, della forza, dei mezzi, dei capitali e del potere, la gerarchizzazione sociale, le pratiche di dominio e quindi di sfruttamento della maggioranza degli umani e della natura, cioè l’economia, le relazioni sociali e la cultura.

Ma la storia dell’umanità sembra essere soprattutto una continua riproduzione di disastri, di atrocità, di crimini e genocidi, di continue sconfitte delle lotte per l’emancipazione e per un mondo pacifico ed equo per tutti. Perché il cosiddetto progresso, il benessere e la felicità sembrano es- sere stati accaparrati sempre da pochi dominanti che hanno prodotto l’impoverimento e la morte dei dominati? Cosa possono apprendere le resistenze contro i disastri dalle ricerche sui diversi rischi di nuove catastrofi per elaborare alternative praticabili a beneficio del futuro dell’umanità e del pianeta Terra? Alcuni studi hanno messo in evidenza che molti movimenti per la giustizia sociale, economica e ambientale stanno dimostrando la volontà di sincronizzarsi tra loro. Vedremo dopo cosa ci propongono.


Antropocene o, meglio, Capitatocene (2)


Reso celebre dal Nobel per la chimica Paul Crutzen nel 2000, il termine è ormai noto anche al grande pubblico di tutto il mondo insieme all’informa- zione sul cosiddetto cambiamento climatico, soprattutto a seguito del summit COP21 del 2015. Secondo alcuni si tratta innanzitutto di un sintomo dei mali del mondo contemporaneo (Leonardi, Barbero, 2016) che quindi necessita di una nuova capacità critica radicale e generalizzata nonché di una pratica di cura collettiva e consapevole per la salvezza dell’umanità e del pianeta (Latour, 2015 e 2017). I dominanti in quanto “signori e possessori della natura”, e non certo l’umanità nel suo insieme, con l’Antropocene celebra- no la loro più schiacciante vittoria sulla natura, che si rivela essere un futuro-minaccia e non più futuro-promessa (formula adottata anche da autori di diversi campi). Secondo l’approccio geologico la conseguenza dell’antropocene è innanzitutto la progressiva scomparsa di minerali, vegetali e specie animali per effetto dell’inquinamento da sostanze tossiche derivanti da attività che le generano: uso carbone, petrolio, chimica in genere, nucleare, ecc. Al di là delle diverse tesi sul periodo storico nel quale si situerebbe l’inizio dell’antropocene, appare comunque evidente che prima dello sviluppo del- l’estrattivismo, della grande industria, degli armi da genocidio, del consumo di energia da fonti dannose e della diffusione planetaria dell’uso dei prodotti chimici, l’impatto di contaminanti nocivi sul pianeta Terra e sull’umanità era certamente assai limitato. Si può quindi pensare che l’antropocene sia cominciato a partire dal XIX secolo e che il processo abbia avuto una forte accelerazione dopo la seconda guerra mondiale. Emerge allora l’urgenza di una governance di tutte le attività produttive e non che dovrebbe essere mondiale. Le lobby finanziarie e tecnologiche propongono “soluzioni” (carbon trading, green economy, energia verde, ecc.) che vengono sbandierate come panacee ecologiche, ma che mirano innanzitutto all’aumento una volta ancora dei loro profitti. Per questo scopo, i grandi gruppi si appropria- no anche del cosiddetto general intellect (Fumagalli; Vercellone; effimera.org) che applicano ai diversi dispositivi della presunta prevenzione dei disastri.

Ciò non deve sorprendere, visto il processo di finanziarizzazione in atto ormai da decenni. Non si tratta di un fatto tecnico, bensì di una componente decisiva del fatto politico totale che comprende tutte le conseguenze del neoliberismo. Fatto politico totale proprio perché non si configura solo un cambiamento di era geologica o una catastrofe dell’ecosistema, bensì un rischio per tutta l’umanità e per l’intero pianeta. Il pericolo è che si approdi (o si atterri, come dice Latour) a un universo umano e terrestre oggi difficilmente immaginabile, così come non era possibile ipotizzare la situazione attuale all’inizio dell’olocene o del “recente” medioevo (forse ci riusciva Leonardo con le sue scoperte e invenzioni avveniristiche perché attingeva a ogni sapere e conoscenza e non con lo scopo di accumulare ricchezza e potere).

La riflessione sul processo di sviluppo del capitalismo mostra bene la storia del dominio sull’ambiente sfruttato come risorsa infinita e gratuita (Avallone, 2015); ciò fa parte della produzione capitalista della natura che saccheggia, manipola, devasta fino a trasformare la Terra in una discarica di rifiuti anche a causa dell’intreccio fra legale e criminale accentuato dal neoliberismo (lo smaltimento e il traffico di rifiuti tossici o meno sono tra i business più redditizi del XXI secolo). Il dominio capitalista, quindi, si nutre sia dello sfruttamento dei lavoratori, sia di quello della natura: si tratta di uno sfruttamento che trae profitto dalla schiacciante asimmetria di potere che sottrae ogni tutela e diventa neoschiavitù e rapina. In questa produzione della natura è insito l’abuso di ciò che è gratuito (o era solo valore d’uso come l’acqua e altre componenti del mondo minerale, vegetale e animale) o che è trattato o imposto come gratuito a beneficio esclusivo del dominio capitalista: è lo sfruttamento della stessa riproduzione e della sopravvivenza della specie umana e quindi della forza lavoro (cfr. effimera.org). L’inferiorizzazione della donna è da sempre alla base della gerarchizzazione sociale indispensabile alla produzione di profitto.

Numerosi dati mostrano che la parità dei diritti resta un miraggio persino nelle società considerate democratiche e la guerra all’uguaglianza e all’emancipazione guidata dai Trump di turno rilancia questo paradigma perché è essenziale al trionfo del neoliberismo. La riduzione, la privatizzazione e/o la soppressione del welfare a danno delle donne dell’universo dei dominati nonché la generalizzazione dell’inferiorizzazione e le neoschiavitù sono dirette conseguenze di questo capitalismo di rapina (si vedano il manifesto di effimera.org e i testi di Fumagalli, Vercellone e altri).

Il neoliberismo non fa che aggravare tutti gli aspetti nefasti già emersi nel processo di affermazione e sviluppo del capitalismo e produce ciò che Mbembe (2016) definisce necropolitica, ossia la facoltà di eliminare o lasciar morire, un potere che i dominanti hanno esercitato da sempre, ma che oggi si esprime attraverso i meccanismi di “darwinismo economico-sociale” o di “darwinismo poliziesco”: si muore di lavoro (incidenti, ritmi insostenibili, assenza di protezioni, di malattie professionali, per mano del caporale), si muore perché si vive in ambienti inquinati da contaminanti tossici, si muore perché il sicuritarismo neoliberista uccide (si pensi, per esempio, ai neri negli Stati uniti). Si muore a causa delle guerre permanenti che i dominanti alimentano continuamente, si muore a causa del proibizionismo delle migrazioni. Ma i dominanti non muoiono di queste cause.


Decrescita o meglio eliminazione del danno e riconversione?

In radicale opposizione all’inseguimento della cosiddetta crescita economica, la tesi della decrescita sta riscuotendo da decenni un notevole successo (3) e allo stesso tempo continua a suscitare numerose critiche, soprattutto perché viene percepita come un prodotto delle élite dei paesi ricchi. Nell’area dei teorici della decrescita, tuttavia, si trovano riflessioni del tutto condivisibili accanto a provocazioni e contraddizioni che possono risultare offensive per quanti sono costretti a confrontarsi con le conseguenze più tragiche dell’attuale congiuntura sia nei paesi poveri, sia nei segmenti più svantaggiati di quelli ricchi. È del tutto evidente che sarebbe assolutamente indispensabile smantellare tutte le attività che direttamente o indirettamente generano morte e devastazioni, un provvedimento che andrebbe ben oltre la decrescita (estrazione di carbone, petrolio, minerali mortali come l’uranio, produzione di armamenti, industria nucleare, petrochimica, l’industria chimica che produce pesticidi, fertilizzanti, farmaci tossici e in generale materiali cancerogeni).

L’obiettivo cruciale per salvare l’umanità e il pianeta per il quale necessita una mobilitazione collettiva di ogni sorta di competenza non è la decrescita, ma pensare e praticare l’eliminazione o la riconversione di tutte le attività nocive al fine di garantire un assetto economico in grado di produrre reddito dignitoso e protezione dell’ambiente. In alcuni casi le sperimentazioni di riconversione sembrano riuscite e promettenti, in particolare nell’agricoltura, nell’allevamento di animali e quindi nella produzione di alimenti, di energia nonché nelle nuove tecnologie. Meritano un plauso tutta la ricerca e le sperimentazioni che vanno in questo senso, come il bio- mimetismo basato sulla valorizzazione della natura come immensa biblioteca, una biblioteca nella quale si trovano elementi dannosi da scartare e numerosi altri che sono preziosi, efficienti, puliti e a costo zero, a dispetto dei risultati della ricerca scientifica asservita al profitto. Questo spiegano l’economia della conoscenza e il Rinascimento 2.0, il biomimetismo e le neuroscienze che militano per un’ecologia mondo che ha antenati illustri come Leonardo da Vinci (Aberkane, 2015) e pionieri recenti come André Gorz (Leonardi, 2018). I diversi esempi illustrati da Idriss Aberkane, per esempio, sembrano particolarmente stimolanti per la ricerca di alternative valide all’incedere neoliberista.

I tentativi di elaborazione proposti col nome di commonfare, comune, rinnovamento radicale della cooperazione –effettivamente non a scopo di lucro- e il mutuo soccorso, appaiono di fondamentale importanza per l’elaborazione di prospettive nuove. Cambiamo tutto! Esclamano tanti militanti dell’ecologia politica che lavorano nel mondo delle innovazioni di ogni sorta o nei comitati e associazioni di resistenza ai disastri. Diverse ipotesi si traducono già in sperimentazioni promettenti, sebbene a volte effimere e controverse. Si pensi, per esempio, alla semplice pratica dei Gas (gruppi di acquisto solidale), alle cooperative senza scopo di lucro di produttori e consumatori (il chilometro zero) fra i quali alcuni centri commerciali alternativi (in origine genuino clandestino (4) nonché ad altre forme organizzate di attività produttive, di servizi e della vita sociale, della convivialità e del tempo libero. È implicito che anche queste sperimentazioni rischiano di essere rapinate dalla logica dei dominanti che, come le mafie, fagocitano e penetrano innanzitutto attraverso i meccanismi finanziari. Perciò il manifesto di effimera propone l’ipotesi di creare una moneta (il commoncoin che non ha nulla a che vedere col bitcoin).

In questa fase, tuttavia, è indispensabile riuscire a innescare in tempi brevi sperimentazioni effettivamente credibili e quindi praticabili insieme a coloro che subiscono le terribili condizioni lavorative e abitative come quelle descritte in questo libro. Così come è urgente elaborare progetti di riconversione realizzabili e alternativi alla concezione produttiva oggi dominante, in particolare per quanto riguarda il reperimento dei fondi finanziari necessari. Non dovrebbe, tuttavia, essere particolarmente difficile se ci si pone in una prospettiva radicalmente alternativa sia per quanto riguarda l’appropriazione dei mezzi, delle strutture e dei luoghi di produzione, sia per quanto riguarda l’approvvigionamento delle materie prime, sia ancora per la commercializzazione. Tutti questi aspetti potrebbero essere affrontati secondo la proposta del commomfare, del comune, della nuova cooperazione solidale e del mutuo soccorso solo grazie alla collaborazione di lavoratori, abitanti, tecnici ed esperti critici del neoliberismo e dei suoi crimini e seriamente disposti a lavorare con rigore alla ricerca di alternative.Ecco perché il primo obiettivo è: inventare nuove possibilità, modalità, occasioni e momenti di agire collettivo, cioè di quella “densità dinamica” che possa permettere di rovesciare l’asimmetria di potere oggi favorevole solo ai dominanti.


Conclusioni

Le resistenze contro i disastri sanitari, ambientali ed economici si diffondono sempre più in tutti i continenti (in America Latina e nel Nord America, in Cina e India, in Africa e in Europa). L’esercito dei responsabili dei crimini contro l’umanità e della distruzione del pianeta è sinora vincente anche perché la maggioranza di loro si nasconde dietro facciate pseudo-ecologiste, umanitarie o filantropiche (e in questo novero collochiamo buona parte degli euroburocrati e dei governanti dei paesi europei). La guerra in corso contro l’umanità e la natura si è accanita a partire dalla repressione brutale del movimento “altermondialista” che manifestò a Seattle, a Genova e ancora dopo sino ad Amburgo. La riproduzione delle guerre permanenti e del terrorismo foraggiati dai dominanti ha funzionato come una potentissima distrazione di massa che ha sfavorito le resistenze mobilitate per salvare l’umanità e il pianeta.Tuttavia le resistenze sono destinate a imporsi sulla scena politica innanzitutto a livello locale appunto perché lottano per la sopravvivenza dell’umanità e della Terra e sono animate dall’aspirazione all’emancipa- zione economica, sociale e politica. Questi movimenti hanno tre principali tratti in comune: si oppongono ai responsabili del massacro di esseri umani e della devastazione della Terra; sono composti e sostenuti da buona parte delle popolazioni che si battono per la loro sopravvivenza a livello locale e infine si impegnano a costruire un’alternativa vivibile e rispettosa dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani. Queste resistenze hanno come antenati le rivolte degli schiavi e tutte le lotte dei subalterni; hanno ragioni e obiettivi analoghi a quelli che nel XIX e XX secolo hanno animato le lotte contro il colonialismo, la schiavitù, il razzismo, i totalitarismi e le mafie: i diritti fondamentali di tutti gli esseri umani. Anche i nemici dell’umanità e del pianeta Terra di ieri hanno tratti identici a quelli di oggi: mirano al proprio esclusivo profitto per aumentare la loro ricchezza e il loro potere a tutti i costi, con ogni mezzo e modalità. Ecco quindi perché occorre un impegno serio e puntuale da parte di tutte le persone che hanno a cuore la salute, l’ambiente e i diritti fondamentali di tutti, un impegno che si traduca nella collaborazione stretta e continua tra la popolazione che partecipa alle resistenze, gli operatori dellaprevenzione e dei controlli dei rischi di disastri e i ricercatori di tutte le discipline, insomma un effettivo incontro tra tutte le conoscenze e i saperi utili all’umanità. Ciò è indispensabile per vincere le battaglie contro nemici che sono sempre più potenti anche grazie alla loro capacità corruttiva e al consenso che ricevono da parte di quanti nella popolazione tollerano  e condividono pratiche illegali (gli illegalismi tollerati dai dominanti per legittimare i loro crimini). La collaborazione efficace e capillare è altresì imprescindibile per trovare risposte adeguate sia per la sopravvivenza nelle situazioni catastrofiche e prive di tutele, sia per elaborare e costruire le alternative. Questo è oggi l’obiettivo più difficile: come riuscire a eliminare o riconvertire l’industria militare, nucleare, petrolchimica e tutte le attività che producono malattie, morte e devastazione della Terra? Evitiamo querelle ideologiche o astratte che non si confrontano con le condizioni drammatiche delle popolazioni colpite da disastri spesso permanenti e guerre o costrette a scegliere tra il diritto alla vita e il diritto al lavoro (si muore sul lavoro e fuori dal lavoro). L’asimmetria di potere è oggi schiacciante, ma le resistenze si rinnovano e si diffondono. L’1% della popolazione mondiale domina sino a quando buona parte del restante 99% non sarà in grado di accumulare conoscenze e capacità di agire collettivo.

Questo libro è forse solo un piccolo contributo, ma speriamo possa essere usato a questo scopo; è stato scritto senza illusioni e non per scopi accademici, ma per stare insiemea chi resiste, con la consapevolezza che la scommessa di difendere l’umanità e il futuro può essere vinta.

NOTE

(1)www.liguriainformasalute.it/sanita/ep/risorse%20comuni/pdf/LIBRO_INAIL.pdf.

(2) Dal greco anthropos (umano) e cene (nuovo), quindi antropocene come nome dell’era geologica che succede all’olocene (datata di 11.700 anni) per opera dell’umanità sulla natura (dei responsabili dello sviluppo capitalista, secondo chi propone di chiamarla capitalocene).

(3) Vedi libro curato da Deriu (2016) di cui diversi capitoli sempre su http://effimera.org/catego- ria/ecologiapolitica/, così come di quello a cura di Giacomo D’Alisa, Federico Demaria e Giorgos Kallis (2015). Si veda la rivista: www.decrescita.it/; in francese: www.ladecroissance.net/.

(4) Cfr. www.youtube.com/watch?v=9VLTAhakKaQ.