L’imprinting come nuova logica dello sfruttamento

Oltre la dissoluzione del rapporto salariale (1)


di F. CHICCI, E. LEONARDI, S. LUCARELLI (in Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni, n. 1/2, 2016 (Ed. Deriveapprodi)


L’oggetto analitico di questo libro è lo sfruttamento contemporaneo, o meglio la sua indagine a partire dall’armamentario concettuale della critica dell’economia politica marxiana – e in particolare dalla nozione chiave di sussunzione – per poi metterlo alla prova della contemporaneità ed eventualmente aggiornarlo. In questo senso, il nostro lavoro affonda le radici in un dibattito tutt’altro che recente, almeno per quanto riguarda la galassia del neo-operaismo italiano. Infatti, già alla fine degli anni Settanta dalle preziose colonne della rivista «Primo Maggio», Christian Marazzi dava una lettura delle trasformazioni qualitative che avevano colpito la composizione di classe, e al contempo metteva in luce alcuni limiti che caratterizzavano l’armamentario teorico dell’operaismo degli anni Sessanta: 

«assumendo come “prius” la classe operaia come misura del capitale e dei suoi movimenti ci si incolla di fatto ad una dimensione quantitativa dello scontro fra capitale e operai. Manca completamente la valutazione qualitativa, soggettiva delle trasformazioni che questo rapporto genera sulla dinamica complessiva della società. Questa dimensione qualitativa viene recuperata con la “crisi della legge del valore”, crisi che ci permette di “comportarci” soggettivamente al di fuori del vincolo capitalistico, al di fuori del “produttivismo” delle lotte operaie. La crisi della legge del valore è il coronamento coerente di questo primo operaismo, ma purtroppo è una analisi impotente di fronte alle trasformazioni indotte dallo stesso rapporto capitale-operai sul resto della società (come, ad esempio, la riarticolazione del processo produttivo sul territorio, il decentramento, le runaway industries, ecc). Sia chiaro, qui non si tratta di negare la crisi della legge del valore, ma di scavare nell’articolazione del suo processo di crisi, e quindi di evitare di assumerla come fatto lineare, teleologico» (2).

Marazzi poneva così l’attenzione sulla riorganizzazione capitalistica, la quale tende a ricostruire la dimensione quantitativa della legge del valore – dunque a re-inventare una misura di riferimento – fuoriuscendo dal rapporto diretto tra capitale e lavoro, ri-articolando in modo inedito la produzione, la riproduzione e la circolazione, agendo dall’alto senza alcuna linearità, seguendo anzi le curvature che caratterizzano i processi di valorizzazione nel loro intrecciarsi con i processi di soggettivazione. Si apriva così una pista di ricerca inedita, e sotto molti aspetti ancora da esplorare (3).

In un libro recente dedicato al tema della produzione di soggettività nel corpus marxiano, Sandro Mezzadra segnala come obiettivo fondamentale «la costruzione di un concetto di sfruttamento capace di integrare le due dimensioni fondamentali dell’estraneazione e dello spossessamento dal punto di vista della produzione di soggettività caratteristica del capitalismo contemporaneo» (4). Ecco, la nostra riflessione si situa precisamente a questo livello – parte cioè dalla presa d’atto che l’estrazione di plusvalore si dà oggi anche attraverso la cattura di azioni sociali che si realizzano all’esterno del lavoro salariato (5). E per cogliere la specificità di tali pratiche di sfruttamento nel capitalismo – un modo di produzione che non ha cessato di trasformarsi nei suoi oltre due secoli di vita – occorre qualificare il rapporto che si intende stabilire con Marx. Dal nostro punto di vista, rimanere fedeli allo spirito dell’autore del Capitale significa calarne la lettera nelle trasformazioni vorticose che i processi di valorizzazione hanno subito negli ultimi quarant’anni. Da questa opzione metodologica ricaviamo due indicazioni: la prima, è che non c’è dubbio che il capitale sia un rapporto sociale espansivo basato sulla rivoluzione continua delle sue condizioni di esistenza al fine di approfondire il saggio di sfruttamento (e qui non ci discostiamo di un millimetro da Marx). La seconda, è che per comprendere il darsi contemporaneo di quella rivoluzione non sia sufficiente limitarsi a “rimestare” nella cassetta degli attrezzi marxiana. Occorre aggiornarla in profondità guardando a opzioni teoriche differenti – sebbene non necessariamente contrastanti. Battere nuove strade, con la consapevolezza, ma senza il timore, d’imbattersi in inevitabili inciampi. In questo senso, la nostra proposta è quella di affiancare al concetto di sussunzione quello di imprinting.

L’ambito problematico cui l’imprinting fa riferimento è la modalità attraverso cui il capitale mette a valore la sfera della riproduzione sociale, tradizionalmente intesa come dimensione improduttiva, composta da una molteplicità di elementi (relazioni di cura, comunicazioni, ambiente naturale, formazione, ecc.) subordinati alla centralità dell’istituzione-salario (vero e proprio cardine della sottomissione del lavoro al capitale). Inoltre, l’imprinting nomina un salto logico rispetto alla sussunzione: se la seconda agisce il proprio comando producendo soggettività quanto più possibile omogenee e uniformanti, la prima si produce attraverso un costante incentivo alla differenziazione che tuttavia non deve in alcun modo collidere con l’assiomatica capitalistica. Ne deriva la seguente, violentissima, doppia ingiunzione dell’attuale imperativo categorico: 1) sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia, purché 2) la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale e nelle sue volatili metriche convenzionali. In altre parole, si tratta di un’inclusione differenziale basata sull’apparente paradosso di un comando che si esprime attraverso la produzione di libertà, di un dispositivo di governo che organizza la produzione sociale incitando all’autonomia soggettiva.

Lo sviluppo generale di questa ipotesi occupa interamente il primo capitolo di questo libro, scritto collettivamente, mentre i saggi successivi ne sviscerano alcuni aspetti più puntuali. Fin da ora, però, ci sembra opportuno segnalare la nostra speranza di non essere risucchiati in due dibattiti, certo importanti ma che rischiano di oscurare il nocciolo della riflessione che abbiamo cercato di condurre. Il primo dibattito è quello che riguarda le forme assunte dal controllo sociale nel xxi secolo: ad alcune analisi – più o meno direttamente legate alla Scuola di Francoforte – che sottolineano la dimensione tendenzialmente totalitaria delle nuove tecnologie se ne contrappongono altre – generalmente d’ispirazione post-strutturalista – che al contrario si concentrano sull’ambivalenza delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione e sull’importanza politica d’influenzarne lo sviluppo. Si tratta evidentemente di un dibattito di grande interesse; diversa è però la questione politica con cui vorremmo confrontarci, cioè la critica dello sfruttamento finalizzata alla sua abolizione. Il motivo per cui il controllo della soggettività (ma meglio sarebbe dire il suo governo) entra a più riprese nella nostra elaborazione dipende dal fatto che la soggettività tout court si è oggi direttamente installata nel cuore della produzione capitalistica. 

Il secondo dibattito da cui vorremmo almeno parzialmente prendere le distanze è quello che riguarda la composizione di classe a livello globale – stante la crisi conclamata del fordismo, quantomeno sull’asse atlantico Stati Uniti-Unione Europea. Anche qui la polarizzazione è piuttosto evidente: da un lato chi segnala il tramonto tendenziale della catena di montaggio e l’emergere del general intellect come elemento centrale del lavoro post-fordista, dall’altro chi richiama il persistere a livello planetario – e anzi l’allargarsi – dell’operaio massa novecentesco, specialmente in Cina, non a caso rinominata la fabbrica del mondo. Ora, sganciarsi completamente da queste analisi è pressoché impossibile per chi intende occuparsi di sfruttamento. Tuttavia, stante l’indiscutibile centralità del lavoro migrante – peraltro irriducibile alla figura del lavoratore salariato classico –, crediamo sia più utile lavorare negli interstizi che prendere posizione in maniera netta e incontrovertibile. Data la nostra posizione socio-geografica (lavoratori dell’università nell’Europa del Sud), possiamo osservare da vicino gli effetti del declino del fordismo sulla messa a valore immediata della soggettività, e da lì costruiamo la nostra riflessione. Cerchiamo però di non allargare indebitamente il raggio degli effetti: il tentativo di stabilire un rapporto di complementarità tra sussunzione e imprinting segnala, infatti, la nostra volontà di costruire un terreno teorico sul quale sia possibile costruire un’articolazione tra forme (logiche e storiche) di sfruttamento eterogenee. Insomma, non si tratta tanto di stabilire quale settore sociale possa legittimamente fregiarsi del titolo di “classe rivoluzionaria”, bensì di chiedersi come la soggettività entri nei circuiti della produzione del valore, cioè di ragionare sui modi del suo sfruttamento. Crediamo che la lotta allo sfruttamento – qualunque forma dovesse assumere – potrà giovarsi di queste analisi.

Un’ultima considerazione: le riflessioni contenute in questo libro sono frutto di un percorso molto lungo, cominciato nel 2007 all’interno del gruppo di ricerca après-coup coordinato da Federico Chicchi presso l’Università di Bologna. All’inizio del 2009, nel corso del workshop intitolato Lo sfruttamento: un approccio multidisciplinare, organizzato da Stefano Lucarelli presso l’Università di Bergamo, emerge in forma embrionale l’ipotesi dell’imprinting. La versione in inglese della relazione di Emanuele Leonardi verrà pubblicata l’anno successivo (6). Da allora non abbiamo smesso di confrontarci su questo tema, incontrando un gran numero di punti di blocco ma rilanciando ogni volta la scommessa in direzioni spesso inaspettate. Decisivi per la messa in ordine di pensieri e appunti ai fini dell’effettiva pubblicazione sono stati da un lato, il cantiere di analisi Logiche dello sfruttamento contemporaneo: oltre la sussunzione? – organizzato dal progetto di ricerca militante Commonware a Bologna, tra marzo e giugno del 2015 – e dall’altro, la conferenza romana della rivista «Historical Materialism»(settembre 2015), nel corso della quale abbiamo potuto presentare e discutere le nostre tesi. Oltre che lungo, il processo è stato piuttosto difficile data la nostra diversa provenienza disciplinare, e più in generale considerati gli ambiti di ricerca non sempre facilmente sovrapponibili.

Per questo crediamo sia necessario fornire al lettore alcune istruzioni per l’uso – beninteso: niente più che suggerimenti, che in quanto tali possono anche essere ignorati. 

Il capitolo primo è frutto di un’elaborazione comune e costituisce il nucleo teorico del volume: vi si richiamano i dibattiti cui abbiamo preso parte e su cui vorremmo intervenire, nonché gli autori che rappresentano i nostri riferimenti imprescindibili. Si tratta del luogo in cui l’ipotesi dell’imprinting come architrave dell’analisi dello sfruttamento contemporaneo viene messa in contesto: a quale problema cerca di far fronte, a quale tradizione teorico-politica appartenere, a quali sviluppi speriamo possa indirizzarsi. I successivi tre capitoli sono vere e proprie linee di fuga che approfondiscono alcuni aspetti specifici del campo semantico dischiuso dal concetto d’imprinting. Funzionano sia da tracce genealogiche – cercano cioè di rispondere alla domanda: da dove nasce l’esigenza di pensare una nuova logica dello sfruttamento? – che da campi d’applicazione, terreni più o meno empirici sui quali l’imprinting come griglia d’intelligibilità approfondisce a nostro avviso la comprensione della realtà sociale. Il capitolo secondo situa la nuova logica dello sfruttamento alla base dell’esplosione del rapporto salariale, cioè della sua perdita di centralità in quanto luogo privilegiato della mediazione sociale. Ne deriva una situazione segnata da profonda eterogeneità: le relazioni economiche de-salarizzate includono, infatti, tanto i processi di finanziarizzazione quanto le forme di retribuzione puramente simbolica spesso riservate ai lavoratori precari. Il capitolo terzo installa l’ipotesi dell’imprinting sul solco filosofico tracciato da Gilbert Simondon attraverso la sua analisi dell’individuazione. Su questa scena s’incontrano teorici del capitalismo cognitivo, pensatori del trans-individuale e lavoratori che hanno prestato la loro opera all’Expo 2015 di Milano in cambio di nulla. Il capitolo quarto legge l’interazione tra le due logiche dello sfruttamento (sussunzione e imprinting) a partire da autori prossimi, seppur distanti, quali Deleuze e Guattari, da un lato, e Lacan, dall’altro. Su questo terreno l’assiomatica sociale e il fantasma della merce tentano di produrre una soggettività fin da subito adeguata al funzionamento del capitalismo neoliberale. La stessa soggettività, tuttavia, in tale operazione, non risulta affatto un oggetto passivo e inerte investito dal potere governamentale ma è, da un lato, sollecitata dalle sue ingiunzioni all’autonomia produttiva e, dall’altro, chiamata a resistervi sperimentando il fuori-misura e la de-contabilizzazione del suo godimento. 

Infine, le conclusioni raccolgono le idee chiave sparse lungo i vari capitoli, richiamando una volta di più i contesti teorici e politici che danno un senso alle analisi svolte e rilanciando la ricerca verso ulteriori sviluppi. Nella speranza che i movimenti sociali rendano sempre meno necessario occuparsi in futuro di sfruttamento.

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Per comprendere le nuove forme dello sfruttamento contemporaneo occorre mettere a fuoco i modi attraverso cui il capitale mette a valore la sfera della riproduzione sociale, sia nei sui elementi tradizionalmente legati al salario (ma in ogni caso non perfettamente sovrapponibile ad esso) – cioè consumi e risparmi – sia nelle sue dinamiche un tempo considerate “improduttive” (ambito relazionale/affettivo/comunicativo, ambiente naturale, formazione, ecc.). Da questo punto di vista è fondamentale esplicitare il nostro debito rispetto alla critica femminista dell’economia politica. La messa in discussione della subalternità del momento riproduttivo rispetto a quello produttivo è infatti condizione necessaria per l’analisi degli scenari post-salariali che abbiamo di fronte. Si deve dunque parlare di femminilizzazione del lavoro per indicare non tanto “l’aumento quantitativo della popolazione attiva femminile a livello globale”, ma anche e soprattutto per definire “la qualità del lavoro contemporaneo […] il carattere paradigmatico del ruolo che le donne svolgono all’interno dell’economia globale” (7). Sempre più il lavoro contemporaneo assume la cura come modello di riferimento, tende cioè a esibire tratti tipicamente “femminili” – affettivi, relazionali, orientati alla condivisione, ecc.

Questo passaggio, il cui carattere di novità a noi pare evidente, è colto con grande efficacia anche da Alisa del Re: 

«Nel polimorfismo attuale dei rapporti di lavoro verifichiamo che l’“industriosità sociale” è molto più ampia dei rapporti di lavoro salariati normati […] Quando esiste un salario per il lavoro di riproduzione, non registra la novità dei rapporti, esso paga ancora, e in termini spesso minimalistici (assenza di conflitto) solo le ore di lavoro. E qui si presenta un paradosso difficilmente spiegabile: i “lavori” che producono “società” (e cioè riproducono condizioni di vita accettabili) non sono salariati con il criterio necessario al loro tipo “speciale” di produzione. Un lavoro relazionale “nuovo” viene salariato in termini “vecchi” e cioè contando il lavoro e non i bisogni soddisfatti […] Tra le conseguenze, una di carattere squisitamente qualitativo è legata al fatto che soggettività e relazione, passione e affettività, connotati tradizionali della sfera privata e riproduttiva dell’esistenza umana, sono diventate risorse fondamentali nel mondo della produzione di merci» (8). 

Una conseguenza paradossale di questa centralità della riproduzione è che nell’epoca della crisi conclamata del lavoro salariato il tempo di lavoro si dilata a dismisura e finisce col sovrapporsi al tempo di vita fino a rendere le due temporalità pressoché indistinguibili. Salvatore Cominu, che ai processi di lavorizzazione della capacità umana ha dedicato studi fondamentali, lega questa dilatazione all’emergere di una “logica iper-industriale” capace di articolare «lavori relativamente proceduralizzati ed eterodiretti e lavori “liberi”, skill neo-artigianali, reti cooperanti apparentemente endo-organizzate e finanche un’ampia gamma di prestazioni extra-salariali (al cui interno occorrerebbe però distinguere tra salariati di fatto, prestazioni remunerate con monete simboliche e attività del tutto desalarizzate che tuttavia “danno valore”)» (9). Ciò che distingue il nostro approccio da quello di Cominu è che mentre a suo avviso lo scenario appena delineato implica «la tendenza verso un grado più avanzato, dal punto di vista capitalistico, di sussunzione della capacità umana» (10), a noi pare che per comprendere detto scenario sia necessario affiancare alla logica della sussunzione una nuova logica dello sfruttamento, cioè l’imprinting.

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Il problema è quindi riconoscere il salto che la logica dell’imprinting (e la governamentalità che ne consegue) introduce nelle pratiche contemporanee di estrazione del plusvalore e di sfruttamento. Questa espressione, imprinting, richiama alla mente gli studi dell’etologo Konrad Lorenz: in molti animali esiste un tipo di apprendimento per esposizione, che fissa in modo stabile nella memoria degli individui l’immagine del genitore o di chi viene riconosciuto come tale. Questa impronta lascia una traccia che non impone un percorso evolutivo, ma che comunque tende a delimitare i campi di possibilità e il carattere di un individuo. La parola serba in sé anche un’altra coppia di immagini. La prima, evoca il tema dell’impressione collegata al processo di sviluppo della pellicola fotografica: quando questa viene sottoposta ad un’esposizione controllata di luce, su di essa si imprime un’immagine, detta latente, proprio perché la creazione di un’immagine stabile è soggetta a ulteriori passaggi. Esiste dunque un’ampia gamma di possibilità dentro i confini dell’immagine latente. La seconda immagine, invece, si riallaccia al campo semantico della locuzione latina nihil obstat quominus imprimatur, spesso abbreviata nel semplice imprimatur, espressione della quale l’autorità ecclesiastica si serviva al fine di autorizzare la stampa di libri. Al di là del richiamo a una normatività organizzativa imposta, ciò che qui interessa sottolineare è l’idea di un limite/soglia stabilito (arbitrariamente) ex ante senza indicare per questo una specifica conclusione al processo di produzione. In altri termini, il libro può trattare di qualsiasi argomento purché questo non violi la dottrina cattolica. Si tratta dunque di una ingiunzione negativa che pone un limite al di là del quale, tuttavia, tutto è concesso. Similmente, l’imprimatur del capitale stabilisce ex ante (sempre arbitrariamente) un limite/soglia al di là del quale tutto è concesso. 

L’imprinting non si configura però come un atto puramente formale consistente nel tracciare un confine discorsivo; al contrario, esso si presenta direttamente come strumento di governo delle vite, come dispositivo biopolitico volto alla selezione di traiettorie di divenire potenzialmente funzionali (dal punto di vista della valorizzazione capitalistica). “Potenzialmente” funzionali perché, benché l’ingiunzione negativa avvenga ex ante, la validazione economica non può che avvenire ex post: per quanto “impressionata”, in altri termini, una soggettività in divenire rimane sempre parzialmente indeterminata e il capitalismo si trova costretto a far giocare questa indefinitezza, che ovviamente procede producendo antagonismi. A questo punto, però, un’altra considerazione si rende necessaria: accanto all’ingiunzione negativa (imprinting come stabilimento di una soglia – il purché) sta sempre un’ingiunzione positiva che incita/impone al soggetto di conformarsi quanto più possibile all’imperativo del godimento (illusorio) dell’autonomia (imprinting come foucaultiano dispositivo “liberogeno” di una governamentalità interventista, di «una società orientata non verso il mercato e l’uniformità della merce, ma verso la molteplicità e differenziazione delle imprese») (11). Ecco dunque la doppia ingiunzione dell’imperativo categorico del capitalismo contemporaneo: (A) sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia, purché (B) la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale e nelle sue metriche convenzionali in continuo mutamento. In altre parole, si tratta di un’inclusione differenziale basata sull’apparente paradosso di un controllo sociale che si esprime attraverso la produzione di libertà, di un dispositivo di governo che organizza la produzione sociale incitando all’autonomia soggettiva.

In ultima istanza, l’imprinting dischiude uno spazio di sfruttamento al di là della relativa omogeneità necessaria al dispiegarsi della dinamica salariale: esiste una specifica forma di subordinazione che trae linfa dall’indefinitezza, piuttosto che esserne minacciata. In questo senso, l’imprinting segna una fondamentale riconfigurazione dei rapporti sociali di produzione.

NOTE

(1) Questo testo ripercorre l’introduzione, con l’aggiunta di alcuni brevi estratti, del libro Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, ombre corte, Verona 2016. Ringraziamo l’editore per aver acconsentito alla ripubblicazione su questo numero di «sudcomune».

(2) Christian Marazzi, Alcune proposte per un lavoro sul tema denaro e composizione di classe, “Quaderno n. 2 di Primo Maggio”, supplemento al n. 12 di «Primo Maggio», p. 78. 

(3) È questo il motivo per cui questo libro riporta in Appendice l’articolo di Marazzi appena richiamato.

(4) Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014, p. 133.

(5) A riguardo, in riferimento alla new economy in particolare, ci pare davvero importante la riflessione di Tiziana Terranova: «La frontiera dell’innovazione del processo di valorizzazione capitalistica della new economy è la marginalizzazione del lavoro salariato e la valorizzazione del lavoro libero degli utenti, cioè di un lavoro non pagato e non comandato, ma tuttavia controllato. Si tratta di attrarre e di individuare non solo questo “lavoro libero” ma anche in qualche modo varie forme di plusvalore possibile in grado di capitalizzare su desideri diffusi di socialità, di espressione e di relazione. In questo modello la produzione di profitto per l’impresa avviene attraverso l’individuazione e la cattura di un plusvalore “laterale” (la vendita della pubblicità, la proprietà e la vendita dei dati prodotti dall’attività degli utenti, la capacità di attrarre investimenti finanziari sulla base della visibilità e del prestigio di nuovi marchi globali come google e facebook)» (Tiziana Terranova, New economy, finanziarizzazione, produzione sociale, in Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra, a cura di, Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, ombre corte, Verona 2009, p. 137). Si veda inoltre Tiziana Terranova, Securing the Social: Foucault and Social Networks, Sophie Fuggle, Yari Lanci e Martina Tazzioli, a cura di, Foucault and the History of the Present, Palgrave Macmillan, Londra 2015.

(6) Cfr. Emanuele Leonardi, The Imprimatur of Capital: Gilbert Simondon and the Hypothesis of Cognitive Capital, in «Ephemera», 10 (3-4), 2010, pp. 253-266.

(7) Cristina Morini, Per amore o per forza, ombre corte, Verona 2006, p. 49. Le recenti analisi sull’inclusione del lavoro domestico nei circuiti borsistici (con conseguente femminilizzazione della finanza) ci sembrano andare nella stessa direzione (si veda per esempio Fiona Allon, Femininization of Finance: Gender, Labour, and the Limits of Inclusion, in Australian Feminist Studies, 79, 29, 2014, pp. 12-30). Occorre però sottolineare che la critica femminista non si è limitata all’analisi delle forme contemporanee del comando capitalistico. Jenny Cameron e J. K. Gibson-Graham, per esempio, hanno elaborato il concetto di diverse economy per indicare alcuni campi d’intervento pratico volti ad una femminilizzazione dell’economia in senso emancipativo (Jenny Cameron e J. K. Gibson-Graham, Feminising the Economy: Metaphors, Strategies, Politics, in Gender, Place and Culture, 2, 10, 2003, pp. 145-157).

(8) Alisa del Re, Produzione/Riproduzione, in AA.VV., Lessico Marxiano, manifestolibri, Roma 2008. pp. 148-149.

(9) Salvatore Cominu, Lavoro cognitivo e industrializzazione, in «Sud Comune. Biopolitica, inchieste, soggettivazione», 0, 2015, p. 26.

(10)  Ivi, p. 27.

(11)  Michel Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 71.