Le "città senza paura" e il nuovo municipalismo come alternative globali

di BEPPE CACCIA (Agosto 2017)

Due anni fa, nel maggio 2015, le elezioni amministrative nello Stato spagnolo restituivano un risultato insperato, nelle proporzioni e nei suoi effetti politici: le liste delle “piattaforme civiche” conquistavano le principali città, eleggendo i sindaci di Madrid, Barcelona e di tanti altri centri minori. È a partire da quel evento che, nella metropoli catalana guidata da Ada Colau, Barcelona en Comú ha promosso dal 9 all’11 giugno scorsi il meeting internazionale delle Fearless Cities (le “città senza paura”). Lanciato in poche settimane, ha visto la presenza di oltre settecento partecipanti accreditati, provenienti da oltre 180 città di 40 differenti Paesi, in rappresentanza di circa un centinaio di “piattaforme municipaliste”: una partecipazione che ha riempito tre intensi giorni d’incontri pubblici, workshop, riunioni informali, che hanno iniziato a tessere una più fitta trama di relazioni.
Si è trattato, a tutti gli effetti, della prima occasione d’incontro per quelle iniziative che hanno individuato nella democrazia e nell’autogoverno locale il terreno privilegiato.
Per i promotori il dato di partenza è che “in tutto il mondo, un numero crescente di città grandi e piccole si schiera nella difesa dei diritti umani, della democrazia e dei beni comuni.” L’obiettivo del meeting è quello di “consentire ai movimenti comunali di costruire reti globali di solidarietà e speranza di fronte all’odio, ai confini e ai vecchie e nuovi muri” che li perimetrano.
Numeri assai significativi e ricca articolazione di plenarie e workshop tematici, con attivisti, sindaci e consiglieri da tutto il mondo hanno rivelato un fenomeno in espansione, che da più parti viene ormai definito come “nuovo municipalismo.”
Fenomeno che prende le mosse proprio dai risultati elettorali spagnoli del maggio 2015. Ma che sarebbe, a sua volta, incomprensibile senza il ciclo storico apertosi con l’occupazione delle piazze del 15M 2011, i movimenti di massa che da allora hanno, in susseguenti ondate, fatto irruzione sulla scena sociale spagnola, e infine le diverse sperimentazioni politiche che, in tale contesto, si sono sviluppate.
Sono fattori che continuano a rendere il “laboratorio iberico” oggetto di straordinaria attenzione (e verrebbe da dire, di desiderio) per la verifica di pratiche adeguate a declinare, efficacemente, il tema del cambiamento sociale di fronte ai drammi e alle contraddizioni del presente. Anche perché esse rinviano, nella maggior parte dei casi, a condizioni di partenza comuni ad altri contesti, europei e globali.
La forza, simbolica e materiale, di molte tra le esperienze che si sono confrontate per tre giorni a Barcellona, risiede innanzitutto nella capacità di misurarsi con le trasformazioni strutturali che hanno investito le città nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia. E con l’impatto che le politiche di austerity hanno determinato sulle aree urbane nella recente gestione europea della crisi.
La metropoli contemporanea è divenuta lo spazio per eccellenza della produzione e della riproduzione sociale; lo spazio attraversato e connesso dai corridoi logistici e investito dalla creazione di piattaforme estrattive; il luogo in cui, più di ogni altro, vengono esercitate le attuali forme dello sfruttamento; il terreno ideale di applicazione per la logica parassitaria del capitalismo finanziario: là dove si dispiega la sua aggressione permanente, attraverso i meccanismi dell’indebitamento individuale e collettivo, della speculazione immobiliare e della rendita mobiliare, alla ricchezza socialmente prodotta.
Ma, al tempo stesso, le nostre città sono lo spazio dove si affermano forme di vita comune, libere e tendenzialmente egualitarie; il luogo in cui esplodono nuovi conflitti sociali, proliferano forme di cooperazione mutualistica, iniziative culturali e produttive indipendenti. Ciò conferisce – ed è ormai la realtà quotidiana a ricordarcelo, insieme al contributo di pensatori che vanno da David Harvey a Joan Subirats, da Toni Negri a Neil Brenner – alla metropoli contemporanea il ruolo di un campo di battaglia permanente, di tensione tra forze che si misurano reciprocamente sul terreno dei rapporti di potere reali.
Proprio su questa magmatica linea di frattura sono andate a collocarsi – non senza esprimere una straordinaria capacità d’innovazione nei linguaggi e nelle forme dell’azione, a partire dal nodo cruciale della “femminilizzazione della politica” – le realtà municipaliste nate dalla “confluenza” della soggettività emersa dall’ultimo ciclo dei movimenti sociali con forze politiche della sinistra, antiche e nuove, pronte a riconoscere il primato del “protagonismo cittadino”.
Tale intreccio si è reso materialmente evidente proprio nelle giornate del Fearless Cities meeting: sabato 10 giugno migliaia di persone, inquilini, sfrattati e senza casa sono scese nelle strade di Barcellona, organizzati dalla PAH e dal nuovo “Sindacato degli affittuari”, per ribadire che “la città non si vende”; contemporaneamente si riapriva lo scontro istituzionale sul referendum, autoconvocato per i primi di ottobre, per l’indipendenza della Catalogna; e si era alla vigilia della discussione della mozione di sfiducia al governo Rajoy, costruita “dal basso” da Unidos Podemos nel parlamento di Madrid.
Ma, al di là del contesto spagnolo, l’appuntamento lanciato da Barcelona en Comú ha avuto un respiro effettivamente globale: corposa la presenza di attivisti e amministratori in arrivo dalle città statunitensi, oggi in prima linea nella lotta alla presidenza Trump su diversi terreni, dalla discriminazione razziale alle energie fossili, ma altrettanto significative le esperienze sudamericane (Valparaiso, Rosario, Belo Horizonte) o , dagli altri continenti, quelle di esponenti della Umbrella revolution di Hong Kong, approdati nel consiglio comunale dell’ex colonia, o della delegazione curda che ha riproposto, tra le ovazioni, il modello del “confederalismo democratico” come efficace risposta, a partire dalle regioni autonome della Siria del Nord, alla crisi degli Stati nazione che degenera in più aggressivi nazionalismi e integralismi. Il carattere globale della nuova ondata municipalista è stato poi evidenziato dalle parole di Debbie Bookchin e Vandana Shiva, come formula innovativa in grado di resistere alla fase “post-crisi” della globalizzazione neoliberale, e al suo articolarsi proprio a partire dall’uso estrattivo delle eterogeneità sociali e territoriali.
Certo si sono viste, qui per la prima volta, tutte le potenzialità di uno spazio d’espressione politica del discorso municipalista. La variegata composizione del meeting e il produttivo confronto tra esperienze differenti che si propongono ciascuna come laboratorio, a partire dalle proprie irriducibili specificità locali, ha fatto parlare qualcuno di una “santa trinità municipalista” indispensabile a nutrire, con ruoli e in proporzioni diverse da città a città, reali processi di cambiamento, attraverso la necessaria compresenza di movimenti sociali, piattaforme politico-elettorali “di cittadinanza”, e governi municipali.
E sono le esperienze più avanzate, come quella di Barcellona, là dove questi tre elementi si danno nella forma più matura, ad essere per prime consapevoli del fatto che la semplice “riappropriazione delle istituzioni locali non significa automaticamente la presa del potere.” E che questo è possibile solo se si apre e si mantiene viva una permanente dialettica tra dinamiche sociali, al tempo stesso conflittuali e propositive, e funzioni di governo, che delle prime siano creativamente ricettive. In modo che la spinta “dal basso” delle nuove istituzioni del comune si combini con la trasformazione delle stesse “istituzioni costituite.”
Processi di questa portata sono destinati a scontrarsi con i limiti, interni ed esterni, dell’azione di governo locale, anche di quella più radicale e innovativa possibile. È a quest’altezza che si pone la questione del potere: della fitta trama dei rapporti di forza reali, economici e sociali, mediatici e politici, che innervano la vita delle metropoli. E delle costrizioni giuridiche e istituzionali, finanziarie ed economiche che, dall’esterno, condizionano ogni scelta di governo cittadino. Dal livello nazionale a quello globale, passando per i vincoli posti dal ruolo esecutivo giocato dagli Stati nella cornice della governance europea.
La sfida di processo sta, a questo punto, nella capacità di forzare tali limiti, costruendo, oltre e contro ogni tentazione localistica e autoreferenziale, reti di città che siano in grado di intrattenere produttive relazioni su molteplici livelli: sia con lotte e movimenti sociali reali, sia con altri governi municipali, sia con forze politiche votate al cambiamento, negli spazi nazionali e, ancor più, su una scala d’azione transnazionale. A partire da quella dimensione europea ed euro-mediterranea oggi imprescindibile.
La cessione di sovranità verso il basso, nei contesti urbani, è perciò premessa necessaria per riconquistare spazi di agibilità democratica verso l’alto. Insieme al protagonismo delle donne che pone al centro del municipalismo un decisivo sguardo di genere. Capace d’intrecciare progetti concreti in ogni quartiere con l’esercizio di forme nuove di “disobbedienza amministrativa”, per affermare diritti sociali e civili oggi negati.
E con la disponibilità a stringere – lo ha ribadito con forza l’Alcaldessa Ada Colau nell’assemblea di chiusura – “alleanze anche con chi non la pensa come noi, ma condivide le stesse battaglie e gli stessi obiettivi”, sul cambiamento climatico e sulle migrazioni, sulle politiche abitative e per un nuovo welfare. Su questi nodi cruciali per l’alternativa l’agenda dei “municipalisti di tutto il mondo” è già fitta di appuntamenti: dal confronto svoltosi nel contesto della protesta contro il G20 ad Amburgo, al Transeuropa Festival di Madrid a fine ottobre, fino al prossimo meeting globale proposto a Valparaiso.
Nel frattempo queste esperienze verificheranno, nello scambio reciproco, successi e sconfitte, limiti e potenzialità proiettando su uno scenario globale, segnato dall’uso politico della “paura”, la propria sfida: quella che, con i piedi ben piantati nella dimensione locale, prova con coraggio a reinventare una prassi democratica capace di intervenire sulle grandi questioni del nostro tempo.