Di cosa parliamo quando parliamo di territori

di LANFRANCO CAMINITI (in lanfrancocaminiti.com, luglio 2017)

Eravamo «un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e trasmigratori». Poi, più concretamente, siamo stati la «migliore meccanica d’Europa seconda solo alla Germania». Adesso siamo un popolo di proseccari, occhialari e salumai. Almeno, secondo il Rapporto Economia e Finanza dei Distretti Industriali, edito da Intesa-Sanpaolo nel dicembre 2016, che contiene l’analisi dei bilanci aziendali relativi a circa 60.000 imprese manifatturiere e agricole italiane tra il 2008 e il 2015. 14.972 imprese del campione hanno sede operativa in 149 distretti, e anche nel 2015, come avviene costantemente dal 2009, le imprese distrettuali hanno fatto meglio di quelle non distrettuali e i distretti migliori, i primi dieci posti per performance di crescita e redditività sono proprio questi: 1. Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, 2. Occhialeria di Belluno, 3. Salumi di Parma, 4. Vini dei colli fiorentini e senesi, 5. Mozzarella di bufala campana, 6. Legno e arredamento dell’Alto Adige, 7. Conserve di Nocera, 8. Dolci e pasta veronesi, 9. Meccanica strumentale di Bergamo, 10. Gomma del Sebino Bergamasco.
Riporto qui alcune considerazioni centrali del Rapporto a proposito dei distretti “virtuosi” su esportazione e presenza sui mercati internazionali, concentrazione in alcuni territori, consolidamento delle imprese, ingresso in grandi gruppi esteri e acquisizione di imprese estere: «Nei distretti non solo è più alta la quota di imprese che esportano (38,1% vs. 27,8%), ma è anche più elevata la percentuale di imprese con attività di export e dotate, al contempo, di marchi registrati a livello internazionale (30,8% vs. 25,1%). Inoltre, nei distretti è più intensa la presenza all’estero con partecipate estere (28,9 imprese partecipate ogni 100 imprese in Italia; nelle aree non distrettuali ci si ferma a 20,1) e maggiore l’impegno sul fronte dell’innovazione (circa 53 brevetti ogni 100 imprese vs 40) […] Le imprese distrettuali mostrano una maggiore presenza sui mercati esteri in tutte le classi dimensionali, a indicazione del fatto che molto verosimilmente nei distretti sono presenti meccanismi (involontari e informali) di scambio e condivisione della conoscenza dei mercati, che innescano processi virtuosi di imitazione delle strategie commerciali adottate dai soggetti più dinamici e proattivi […] Molte aree distrettuali sono divenute sede quasi esclusiva di alcune produzioni: concia, calzature, calzetteria, oreficeria, occhialeria, strumenti musicali, piastrelle sono settori fortemente concentrati nei distretti. In altri comparti la presenza di fattori, intangibili e non misurabili, esterni all’impresa ma diffusi all’interno di territori circoscritti (riassumibili nel “saper fare”), ha portato a una concentrazione virtuosa di intere filiere nei distretti. I distretti continuano, pertanto, a offrire esternalità produttive, dando luogo a un contesto favorevole agli investimenti di imprese nazionali grandi e medio-grandi e di multinazionali estere […] La competitività dei distretti è influenzata positivamente dalla presenza di grandi imprese consolidate che nel tempo hanno investito nel territorio e che, al contempo, hanno potuto far leva sul know-how presente nel tessuto produttivo locale. Si tratta di un nucleo di soggetti con un peso e un ruolo molto rilevante all’interno dei distretti […] Diversi marchi famosi distrettuali sono entrati nell’orbita di grandi gruppi esteri (tra questi Loro Piana, Marazzi, Poltrona Frau, Champion Europe, Pal Zilieri, Riello) e dalle prime evidenze emerge come nel complesso l’ingresso nella nuova compagine abbia consentito il potenziamento dell’azienda acquisita, con ricadute positive sul network commerciale e sugli investimenti in tecnologie innovative, ma anche sull’occupazione […] Al contempo, alcune importanti imprese leader distrettuali si sono attivate, tramite acquisizioni di imprese estere, per rafforzare ed ampliare la loro piattaforma distributiva espandendosi in mercati ritenuti strategici (Ferrero, Lavazza, Nuova Castelli, De Rigo, Poltrona Frau)».
Per finire: confrontando l’evoluzione del fatturato (variazione % a prezzi correnti; valori mediani) tra il 2008 e il 2015, il risultato è il seguente: Distretti: +3,5; Aree non distrettuali: -2,5.
Siamo vicini a un risultato a somma zero tra distretti e aree non distrettuali, di cui ci sarebbe poco da inorgoglirsi, anche se, vista la mala parata, ormai di un 1 percento i governi gongolano e si gonfiano il petto. Eppure, le cose non stanno proprio così, in una sorta di perequazione tra chi va meglio e chi va peggio: la realtà è che le aree distrettuali corrono verso una migliore integrazione nel territorio e un consolidamento finanziario anche per la presenza sul mercato estero e per gli investimenti che sono capaci di attrarre; mentre le aree non distrettuali subiscono un progressivo deperimento e depauperamento. La forbice tende a allargarsi, non a stabilizzarsi verso la crescita zero virgola: tende a allargarsi “dentro” la crescita zero tra territori “virtuosi” e quelli “in dismissione”. La concorrenzialità intranazionale premia un territorio che tira e vince e condanna l’altro che perde; lo sviluppo resta concentrato e non crea diffusività riproducibile, per i caratteri propri della produzione, molto vincolata al territorio specifico, ma che rimane circoscritto.
Questo processo ha radici ben più lontane del periodo temporale preso in esame dal Rapporto e è osservabile e misurabile in tutti i paesi dell’occidente, in quel passaggio epocale che è stata la transizione dal fordismo e dal welfare al capitalismo finanziario e al neo-liberismo, con alcuni “esempi” clamorosi: il Michigan degli Stati uniti, passato dall’essere la più grande concentrazione mondiale di imprese e lavoratori dell’industria automobilistica, con una urbanizzazione galoppante da ogni parte del paese, a un territorio “arrugginito”; l’abbandono delle aree e delle città industriali e minerarie nella Gran Bretagna con la gentrificazione delle cittadine e delle campagne e la polarizzazione della finanza nella capitale londinese; la specializzazione di nazioni dentro il mercato unico europeo; la funzionalizzazione di un intero ex-paese dopo l’unificazione delle due Germanie; la spaccatura orizzontale tra Fiandre e Vallonia e la polarizzazione di una città-stato, Bruxelles, con un suo statuto extra-territoriale; la dismissione di interi territori industriali nel nord della Francia e la contemporanea valorizzazione dei terroir e la banlieuzzazione di intere città; l’approfondirsi delle differenze regionali in Spagna. Con ogni probabilità – ne avessimo numeri e dati – avrebbe evidenza enorme in quel vero e proprio “continente della produzione di merci” che è diventato la Cina, dove migrazioni di forza lavoro, espropriazioni e conversioni di territori e produzioni, impianti e super-mobilità di merci e persone, spostamenti di geografie idriche e urbane, megalopoli, hanno assunto la dimensione del “gigantesco”. D’altronde questa stessa dimensione “di scala” ebbe il capitalismo industriale della fine Ottocento in Gran Bretagna e Germania o negli Stati uniti nel primo Novecento. Il capitalismo ha sempre prodotto e trasformato lo spazio, che non si presenta mai come statico.
Lo scarto – è la riflessione centrale di questo testo – tra “quel” capitalismo industriale e “questo” capitalismo sta proprio nelle geografie economiche e sociali: laddove il processo del capitale industriale spingeva a una omologazione nazionale, statale, dei territori, costruendo unicità di mercati e consumi, il processo del capitale finanziario si muove su scala planetaria in una dinamica di differenziazione dei territori, e dei mercati e dei consumi. L’opposizione perciò non è tra globale e locale, tra urbano e rurale, tra metropoli e villaggio – perché nel locale, nel rurale e nel villaggio possono ritrovarsi “isole” di ricchezza e civilizzazione, e nel globale, nell’urbano e nella metropoli possono ritrovarsi “continenti” di devastazione e brutalità. L’opposizione è “dentro” lo spazio, la spazialità, i territori, fra geografie del capitale e nuove cartografie di liberazione. È possibile rovesciare la differenziazione a cui si è “gettati” dal neo-liberismo e dal capitale finanziario globale solo rendendosi indipendenti, cioè riconquistando il potere politico della decisione e della programmazione sui territori. Proveremo anche a spiegare qual è la differenza, cruciale, tra indipendenza e “sovranismo”.
L’attuale processo del capitale non è casuale e non è selvatico e, nonostante la potenza dell’impatto, non è sempre immediatamente osservabile ovunque con la stessa evidenza – il mondo non diventa tutto d’improvviso una Silicon Valley o una Calcutta: le “grandi mutazioni” di insediamento o di abbandono sono macroscopiche laddove concentrate ma spesso si inseriscono in tessuti produttivi e sociali con maggiore resilienza, costruendo geografie miste, paesaggi stratificati dove le rovine giacciono accanto avveniristiche edificazioni. Non solo è vero che Roma non fu costruita in un giorno, ma anche che Ur e Machu Picchu non furono abbandonate in un giorno. Le filiere di produzione distrettuale – l’addensamento e la “messa a valore” di un intero territorio, del suo sapere generale, della sua conoscenza materiale – e la presenza in nodi strategici di veri e propri “corridoi” della distribuzione e degli investimenti finanziari, così come, di converso, l’abbandono di intere aree regionali, sono il risultato di precise dinamiche del capitale (altro che meccanismi “involontari e informali”, come recita il Rapporto di Intesa-Sanpaolo!) e dei conflitti tra interessi e bisogni che scoppiano nei territori.

Forme dello Stato e forme dello spazio.

Henri Lefebvre, nei tardi anni Settanta, parlava di un’«esplosione generalizzata degli spazi» che stava provocando una profonda ridefinizione delle geografie stabilite dal capitalismo e dai poteri statali. Lefebvre si riferiva a una molteplicità di esplosioni che si stavano verificando dentro l’universo capitalista e relative agli “spazi geografici”, ovvero ai centri storici, le città, le metropoli, le conurbazioni, le regioni, le relazioni centro-periferia, gli spazi stabiliti, i confini, le frontiere, ma anche dentro gli “spazi sociali”, ovvero la famiglia, la nazione, l’economia, la storia. Le intuizioni di Lefebvre possono essere ancora intese come linee-guida osservando i più recenti sviluppi del capitalismo. Lo spazio sociale continua a essere prodotto attraverso processi di ristrutturazione. Come ha notato Soja: «La ristrutturazione rimanda alla crisi e a un conflitto competitivo fra il vecchio e il nuovo, fra l’ordine ‘ereditato’ e quello ‘progettato’. Non si tratta di un processo meccanico o automatico. I suoi risultati non sono predeterminati. La ristrutturazione implica flussi e transizioni, posizioni difensive e offensive, un complesso mix di continuità e cambiamento».
Questo «complesso mix di continuità e cambiamento» è sotto i nostri occhi nel rivolgimento e nella lacerazione del post-fordismo. La dimensione spaziale svolge qui un ruolo fondamentale. Il paesaggio del capitalismo è in continua mutazione, a seguito delle più recenti e tumultuose dinamiche di crisi, che stanno ridifferenziando le precarie geografie degli ultimi decenni.
L’attuale capitalismo produce spazi per differenziazione fra le unità geografiche del locale, regionale, nazionale, sovranazionale e globale. Queste scale non vanno considerate come unità spaziali “chiuse”, contenitori territoriali sovrapposti definiti dalla dimensione geografica (come una matrioska). Sono, piuttosto, passaggi di processi economico-sociali sovrapposti che vanno intesi relazionalmente, ossia in rapporto ai legami verso l’alto, il basso e trasversali con le altre scale geografiche. A partire dalle differenti filiere di agglomerazione e territorializzazione di relazioni capitaliste.
Le città, a esempio, operano come nodi all’interno dei circuiti globali dell’accumulazione di capitale, nodi di strutturati network che collegano luoghi disseminati nel sistema-mondo. La scala globale, da parte sua, si costituisce attraverso le reti su cui insistono città e città-regioni e strategie di accumulazione e di “normazione” spaziale che costruiscono corridoi di sistemi intercontinentali di trasporto, reti di infrastrutture, di telecomunicazione e energetiche su larga scala, zone di libero scambio, triangolazioni transnazionali a alta crescita e zone di frontiera internazionali.
Questo processo comporta che:
1. il quadro nazionale di accumulazione, regolazione statale, urbanizzazione e conflitto sociale prevalente nel “vecchio mondo” capitalista, nella fase fordista-keynesiana, è stato destabilizzato a partire dalla metà degli anni Settanta. I “compromessi istituzionali” un tempo correlati al livello nazionale sono ora dispersi a molteplici livelli spaziali;
2. la crisi del fordismo ha suscitato una pluralità di strategie politico-sociali volte a riorganizzare le configurazioni geografiche date in ambiti politico-economici;
3. non ha luogo solo un processo di globalizzazione, decentramento, regionalizzazione o localizzazione che “rimpiazza” la dimensione nazionale, ma assistiamo anche all’emergere di nuove forme dell’organizzazione politico-economica della nazione. C’è un “livello orizzontale” della differenziazione dello spazio geografico ma le reti orizzontali vanno intese basandosi su una “geografia dei flussi”, e non solo su una “geografia delle superfici”. E c’è un livello “verticale”: qui le relazioni sociali sono articolate gerarchicamente fra i piani, globale, sovranazionale, nazionale, regionale, metropolitano e locale. È la circolazione di capitale, il nodo.
Nel corso degli ultimi trent’anni, il progetto geo-economico del neo-liberismo, incentrato su mobilità dei capitali, deregolamentazione dei mercati e crescente mercificazione, è proceduto attraverso un possente attacco alle scale di regolazione socio-politica precedenti. In particolare, riguardo alla forma-Stato.
Come scrive Neil Brenner: «Nell’Europa occidentale, a partire dagli anni Settanta, l’orientamento delle istituzioni politiche urbane al welfare, prevalente durante gli anni del boom economico della seconda metà del Novecento, è stato sostituito da una nuova politica focalizzata sui problemi della competitività economica locale.
Differentemente dagli Stati nazionali del secondo Novecento, imperniati su una politica di welfare di stampo keynesiano e che quindi cercavano di distribuire equamente la popolazione, le industrie e le infrastrutture sul territorio nazionale, la caratteristica dei “nuovi” Stati nazionali-globali è il progetto mirato alla riconcentrazione delle capacità di sviluppo economico nell’ambito di luoghi strategici come le città-regione e i distretti industriali che, a loro volta, devono essere posizionati strategicamente nell’ambito dei flussi economici europei e globali. Tale strategia di riconcentrazione urbana è probabilmente un elemento chiave della competizione tra gli Stati post-keynesiani contemporanei.
Le trasformazioni attuali hanno indotto una riorganizzazione delle forme di spazialità dello Stato ereditate e basate su organizzazioni nazionali, più che un’erosione della forma-Stato come tale. L’attenzione quindi è sulle nuove dimensioni, sulle frontiere e sui confini territoriali dello Stato come ente regolatore. Lo Stato è espressione di strategie politiche selettive dal punto di vista della spazialità.
La forma spaziale dello Stato si definisce con riferimento al principio di territorialità. Anche nell’epoca attuale, mentre i confini degli stati nazionali sono diventati sempre più permeabili ai flussi sovranazionali, la territorialità rimane l’attributo più essenziale della forma spaziale dello Stato.
Gli Stati intervengono anche nelle geografie di accumulazione del capitale. In particolare, gli Stati sono determinanti nella gestione dei flussi di denaro, di merci, di capitali e di mano d’opera attraverso i confini nazionali, nella regolazione dello sviluppo ineguale e nel mantenimento di legami di legittimazione politica tra luogo, territorio e scala.
Rispetto allo Stato nazionale improntato su una politica di welfare keynesiano, con il suo progetto di distribuzione equa dell’industria, della popolazione e delle infrastrutture sui territori nazionali, i “nuovi” Stati nazionali-globali cercano di differenziare lo spazio politico-economico nazionale attraverso una riconcentrazione delle capacità economiche in centri di crescita strategici, urbani e regionali. Il keynesismo era il quadro dominante dell’impostazione spaziale dello Stato durante l’epoca fordista. Il suo obiettivo era la ridistribuzione delle risorse alle regioni poco sviluppate o periferiche, promuovendo così un’urbanizzazione bilanciata in tutta l’economia nazionale.
Come strategia spaziale dello Stato il keynesismo prevedeva l’uso di politiche regionali compensatorie per ampliare l’investimento nelle infrastrutture e lo sviluppo in località non industrializzate in tutto il territorio nazionale.
Rispetto al keynesismo spaziale che puntava all’economia nazionale come unità geografica integrata, le strategie locali-globali promuovono la riconcentrazione della crescita industriale e l’investimento nelle infrastrutture nell’ambito dei distretti e delle economie regionali strategiche.
Le strategie spaziali dello Stato hanno cercato di incrementare gli asset economici specifici su base locale e regionale e di riconcentrare lo sviluppo industriale e gli investimenti in infrastrutture all’interno di città, città-regioni e distretti industriali strategici. L’economia nazionale è quindi frammentata tra economie locali e regionali con i rispettivi asset specificamente locali e particolari traiettorie di sviluppo.
L’applicazione di queste strategie ha causato la distruzione parziale delle precedenti geografie di attività dello Stato come ente di regolazione, mentre i progetti di ridistribuzione spaziale nazionale sono sempre più abbandonati e emarginati.
In contrasto con il progetto fordista-keynesiano, che stabiliva una gerarchia nazionale standardizzata di istituzioni politiche, i progetti spaziali dello Stato del periodo post-anni Settanta del secolo scorso hanno determinato, in tutto il territorio nazionale, una crescente differenziazione geografica delle infrastrutture di regolazione dello Stato, dei sistemi per l’erogazione di servizi pubblici e delle iniziative politiche.
In contrasto con il progetto fordista-keynesiano che, attraverso l’azione dello Stato, riduceva le diseguaglianze spaziali all’interno del territorio nazionale, le “nuove” strategie spaziali hanno intensificato la polarizzazione socio-spaziale intranazionale, promuovendo la riconcencentrazione degli asset economici, delle capacità industriali e degli investimenti infrastrutturali all’interno degli agglomerati più potenti». Fin qui Brenner.

Geografie d’Italia.

Nell’immediato dopoguerra, negli anni della ricostruzione, la capacità industriale italiana si concentra tutta in un’unica area del Nord, il triangolo Milano-Torino-Genova, dove già ha radici dagli inizi del secolo, e passa a una dimensione “fordista”, di scala. Grandi migrazioni, dalle valli, dalle campagne, dall’Est del paese, e dal Sud, a risucchiare masse di braccia operaie, e costruzione di grandi quartieri operai o di vere e proprie cittadine del lavoro operaio modificano il paesaggio urbano. La produzione agricola è ancora significativa, e le campagne, il rurale, hanno un posto importante nella vita e nell’immaginario collettivo. Il ciclo di lotte legato alla terra, dalla Sicilia alla Campania, passando per la Calabria e la Puglia, è stato duro e intenso.
È con gli anni Sessanta che cambia la geografia d’Italia, spinta dalla produzione e dai consumi di massa, e dall’urbanizzazione, un processo che segue linee non solo verticali ma anche orizzontali, intraregionali. La costruzione della grande arteria viaria dell’autostrada, la proliferazione delle strade statali e provinciali e l’intensificazione della mobilità ferroviaria muovono merci e uomini. Mentre la produzione italiana si diversifica e si specializza (chimica, petrolio, acciaio, cantieristica), i suoi stabilimenti si disseminano lungo il territorio – Porto Marghera, Bagnoli, Taranto, Melilli, Gela, Porto Torres – in una sorta di perequazione e bilanciamento. I paesaggi industriali si sovrappongono a quelli rurali (le ciminiere crescono laddove era terra di pascoli) e l’urbanizzazione diventa un processo decentrato e diffuso, più legato ai comportamenti sociali, alla differenziazioni in classi e ceti e alla mobilità verso l’alto, e alla vita quotidiana guidati dai consumi di massa.
Crescono i “servizi” – abitativi, sanitari, scolastici – regolati da un sistema nazionale, e i “diritti” – di associazione, del lavoro, della famiglia – regolati da una normazione nazionale. È l’omologazione d’Italia, dentro il fordismo e il keynesismo. Scompaiono le lucciole. Siamo la settima potenza industriale del mondo.
L’unità territoriale d’Italia è ora solida, dopo le lacerazioni di Trieste con la Jugoslavia, del Tirolo verso l’Austria, e della Sicilia verso se stessa. Siamo un buon alleato americano e un fedele membro della Nato. Gli uni e l’altra vegliano su di noi, e costellano di basi militari i nostri territori. Dal Nord al Sud, va detto, in maniera omogenea.
È con gli anni Settanta che questa geografia muta radicalmente, con il trapasso dell’industrializzazione massiva in diffusione produttiva concentrata in alcune aree: nascono i distretti, alcuni a vocazione di “qualità alta” (di precisione e styling – dalla meccanica alla moda), alcune di “quantità di massa” (abbigliamento, calzature): la forbice del lavoro si amplia, da una parte artistico-artigiano dall’altro “lavoro nero”.
Mentre al Nord il lavoro nero, terzista, vive nella costellazione dell’industria localizzata, al centro, sull’Adriatico e al Sud, il lavoro nero diventa diffusivo e occasionale, stagionale, e va a sostituire quello che un tempo era il bracciantato delle campagne.
Il decentramento dello Stato “segue” questa differenziazione: servizi e istituzioni locali “funzionano” dove rimane una capacità produttiva, servizi e istituzioni si estinguono dove non “servono” una capacità produttiva.
L’unità geo-politica d’Italia si frammenta: i distretti del Nord guardano all’Europa e le loro città vengono inserite nel circuito finanziario e produttivo globale; le aree del Sud sono distanti dal “cuore produttivo” e dai grandi corridoi internazionali e solo in parte agganciano questo nuovo modello (a esempio, una nuova geografia “appare” nella Piana di Gioia Tauro, un tempo esteso agrumeto, poi destinato a V Centro siderurgico durante la rivolta di Reggio Calabria, e poi, ancora, mutato in porto per i container – un corridoio che attraversa e penetra il Sud ma senza svincoli di uscita).
La “questione settentrionale” diventa centrale e la Lega Nord il suo interprete; nonostante la sua simbologia celtica essa è perfettamente funzionale al disegno neo-liberista di differenziazione geo-politica: richiamare risorse e investimenti in alcune aree della nazione, dismettere le altre; inserire la “Padania” nel grande “corridoio” di merci europeo e transnazionale (dalla Spagna all’Est Europa); fare di Milano un “nodo” centrale collegato alle grandi capitali della finanza e del capitale. Il paese viene di fatto sostanzialmente diviso, unito “politicamente” solo dalla forma di governo: è la fine del keynesismo  e dei suoi progetti spaziali (dalle localizzazioni industriali alla Cassa per il Mezzogiorno) e l’avvio del neo-liberismo. E la fine del keynesismo, per la particolare spazializzazione avuta in Italia, ovvero la sua preminente localizzazione al Sud, significa la fine del Sud.
L’aspetto particolare di questo passaggio è l’estinzione dei “compromessi istituzionali” assunti dalla forma-Stato in Italia, per la presenza di un partito a forte vocazione cattolica, legato a un radicato sentimento religioso della popolazione, e per quella del “più forte partito comunista dell’Occidente”. Il loro legame era il fordismo-keynesismo, declinato e interpretato da ciascuno a proprio modo: a esempio, gli investimenti per le localizzazioni industriali erano per gli uni veicolo di clientele politiche, per gli altri la nascita di una classe operaia che avrebbe comportato democratizzazione dei territori. Di fatto, il “sistema dei partiti” che dal dopoguerra aveva governato l’Italia, garantendone l’unità politica dal Nord al Sud, implode. L’implosione dei partiti e degli istituti di mediazione (come il sindacato), insomma la crisi della rappresentanza politica, coincide con l’avvento di profonde trasformazioni produttive e l’affermarsi dell’ideologia neo-liberista.
Il Sud, che dall’unità d’Italia, aveva rappresentato la questione centrale dei progetti territoriali e politici dello Stato, scompare.

Esiste ancora il Sud?

Il principio di territorialità è il criterio politico che fonda l’unità geografica dello Stato. È il criterio che rivendica e annette territori, o li tratta e li compromette. Ha esiti drammatici e tragici – le guerre, anzitutto – ma anche risvolti grotteschi, come quando nel 1831 nel mar di Sicilia uno scoglio vulcanico sbucò all’improvviso e le Marine borbonica, inglese e francese accorsero con le proprie flotte per piantarvi la propria bandiera, dopo di che se ne tornò nel fondo del mare, non senza prima essere diversamente battezzato in un pugno di giorni: Isola Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca, Ferdinandea.
Ma quello che è interessante rilevare è la relazione tra principio di territorialità e forme politiche e istituzionali che assume lo Stato. Era immaginabile una forma diversa da quella del federalismo fra Stati nella costituzione degli Stati uniti d’America? Era immaginabile una forma diversa da quella della Unione delle  Repubbliche socialiste sovietiche all’indomani del 1917 e nel dissolversi dell’Impero zarista dall’Europa orientale all’Asia centrale? Sono domande leziose, certo. Però, il loro senso è interrogarsi sul rapporto fra geografia e politica e storia, tra spazio e tempo. Tra “compromessi istituzionali” e territorialità il rapporto è molto stretto. Tra annessioni e cessioni territoriali e forma dello Stato il rapporto è molto stretto.
Il progetto della Comunità europea (nato dalla comunità di carbone e acciaio) aveva proprio la “forma distrettuale”: puntare su alcune aree a forte industrializzazione, apparecchiare un “mercato unico protetto” di circolazione delle merci, assistere in qualche modo tutti gli altri. Una sorta di “federalismo economico” sotto l’egida di un patto franco-tedesco che ha retto benissimo finché l’economia industriale tirava e che è andata in pezzi davanti alla trasformazione produttiva (che richiede invece forte controllo politico complessivo) e alla crisi.
L’annessione del Sud – tale fu, qualunque giudizio voglia darsene – sotto la guida della monarchia sabauda è la forma propria assunta dalla costituzione della nazione italiana (l’appendice fu Porta Pia). C’era forse altra forma, al tempo della costituzione delle nazioni europee?
La conquista “alleata” del Sud, con l’istaurarsi di un governo provvisorio e di un patto istituzionale, e la sua ricongiunzione con il Nord dalla caduta del fascismo alla liberazione dai tedeschi, e poi con il referendum sulla monarchia e l’elezione dell’Assemblea costituente, fu la forma propria dell’assetto repubblicano in Italia dopo la Seconda guerra mondiale e i nuovi scenari geo-politici dopo Jalta. Un “compromesso istituzionale” che il separatismo siciliano sembrò poter rimettere in discussione. Ne venne invece l’autonomia con lo Statuto del 1946, un nuovo “compromesso istituzionale” con il quale si ribadiva l’appartenenza della Sicilia alla territorialità italiana, e si dava principio alla forma keynesiana dello Stato italiano. La “produzione” della Sicilia autonoma fu funzionale a quel progetto di Stato.
Questa geografia politica d’Italia ha, con ogni evidenza, terminato il suo corso.

Indipendenza.

Ridiscutere il principio di territorialità significa perciò ridiscutere la forma dello Stato, il “compromesso istituzionale” su cui si fonda, il principio di legittimazione politica tra Stato e territorio. Dare, cioè, nuovi assetti istituzionali al territorio che si abita. L’indipendenza non è perciò una forma di governo, ma indica il percorso con cui un territorio, uno spazio, una geografia assume nuovi assetti istituzionali. La differenza con il sovranismo, i neo-nazionalismi, i separatismi e le piccole patrie è profonda e opposita: queste “riproducono” la forma-Stato, rimarcandone i confini, senza discuterla, e dandone un connotato selettivo: lo spazio è inteso in forma di differenziazione politica e giuridica. L’indipendenza, al contrario, è un percorso che si interroga sulla forma del vivere associato, costituisce nuovi statuti e nuove istituzioni e ha un carattere inclusivo della cittadinanza. L’indipendenza produce nuova cittadinanza.
Ridiscutere il principio di territorialità significa anche ridiscutere gli assetti economici di uno spazio geo-politico. L’economia di un territorio non è una questione “data”, un carattere geografico naturale, ma il risultato di un progetto. È la decisione politica che può modificare la spazialità prodotta dal neo-liberismo, dai movimenti del capitale, e che può creare le condizioni di nuove forme dell’economia, di nuovi nodi strategici, di nuovi corridoi della mobilità di uomini e merci. Il mercato deve “servire” la spazialità.
Il percorso di indipendenza prende forma in una democrazia territoriale. È una democrazia fisica e non “virtuale”, fatta di luoghi e persone, di parole e di corpi. E decisioni. È solo sui territori in cui insiste che la democrazia può declinare la questione della forza, della difesa, dell’affrontamento. Questa democrazia va intesa in termini di relazioni e flussi. Fra territori e luoghi della democrazia. Non ha la forma geometrica della rappresentanza piramidale, con la verticalità della decisione dal basso verso l’alto.
Pure, essa deve affrontare una dimensione di scala. Deve insistere su una dimensione di scala. È il modo per superare i localismi, i campanilismi di una cittadinanza intesa come chiusa in se stessa. La democrazia di territorio non può essere lo Strapaese. Anche a fronte delle questioni economiche, che solo su una scala regionale assumono un carattere significativo e possibile forma progettuale di programmazione.
Indipendenza e democrazia siciliana sono perciò assi della stessa proposizione politica. Sarebbe davvero singolare e bizzarro – per la storia della Sicilia e per quello che ha significato nella costituzione d’Italia – che ci venisse additata una dimensione “provinciale”. Nonostante, proprio per la storia stessa di Sicilia non possiamo non dirci meridionali, e pensare a una democrazia del Meridione.

maggio 2017

[1] Economia e finanza dei distretti industriali, Rapporto annuale n. 9, Direzione Studi e Ricerche, Dicembre 2016
[1] L’esplosione degli spazi, 2015
[1] Economic Restructuring and the Internationalization of Los Angeles, 1987
[1] Stato, spazio, urbanizzazione, 2017