Università, perché mi sono arreso

di Vittorio Coletti (in La Repubblica, Genova)

LA PAUSA della domenica mi dà modo di rispondere ai lettori di questa rubrica che mi hanno gentilmente scritto dopo aver letto sul Secolo XIX la notizia delle mie dimissioni anticipate dall’università, messe in relazione con l’ultima delle tante polemiche che ho fatto in questi anni dentro l’ateneo contro la sua burocratizzazione. Vorrei ora precisare che me ne vado dall’ intristita università teleburocratica, ma che di questa noi professori siamo molto più responsabili dei funzionari, che in genere applicano norme che hanno escogitato i professori o contro la follia delle quali i professori non hanno mosso un dito, assistendo in silenzio alla nascita di uno stravolto mostro a due teste, che non ha la pari in nessun’altra pubblica amministrazione.
Soprattutto, duole dirlo, sono responsabili i professori di sinistra, che si sono identificati più di tutti col potere dominante o alla moda; basta guardare quelli che frequentano da anni i vertici del ministero, alle cui follie burocratiche hanno offerto la copertura ideologica di una pseudo-modernità.
L’UNIVERSITÀ italiana è stata forse più tradita dai professori che vessata dai burocrati. Il fatto è che i docenti universitari hanno smarrito la dimensione intellettuale che in passato affiancava quella professionale e scientifica e hanno smesso di guardare la loro istituzione con testa libera e critica. Qualche esempio da casa nostra. In questi mesi l’università di Genova deve fare i conti con un taglio al finanziamento pubblico dovuto ai suoi non brillanti risultati nell’ennesima misurazione nazionale. Ora, Genova non ha avuto un punteggio alto perché alcuni docenti, per protesta contro i criteri discutibili con cui veniva fatta la valutazione, non hanno presentato i loro titoli. Io, preciso, l’ho fatto, sia pure indirettamente e controvoglia, per non creare problemi. Ma alcuni colleghi sono stati più coerenti o determinati di me e si sono rifiutati di compiere il gesto simbolico di portare all’altare del nuovo dio telematico le loro pubblicazioni, per altro, come dice il nome, pubbliche e quindi facilmente controllabili, se si vuole. L’università di Genova è stata penalizzata da questa protesta. La cosa sconcertante però è che noi professori ora subiamo passivamente questa mortificazione gravissima del diritto di sciopero, uno sciopero, per di più, che era stato puramente simbolico, non aveva interrotto i servizi neanche per un minuto, non aveva sospeso né didattica né ricerca. Ecco, l’università da cui voglio andare via è quella in cui la dimensione critica e libera è stata annullata al punto che i suoi professori abbassano il capo anche davanti a un’ingiustizia di questa entità. E sapete perché? Perché i soldi non dati a Genova se li è presi qualche altra sede dove i docenti sono stati in massa più ligi: e nessuno che gridi allo scandalo di un premio che non va alle università con i professori migliori ma a quelle con i docenti più remissivi o rassegnati.
Un’altra conseguenza della perdita della dimensione intellettuale tra i docenti si tocca con mano nei loro discorsi: un tema culturale, politico, scientifico, specie se di attualità, una riflessione di prospettiva, in passato anche troppo ricorrenti, oggi non si sfiorano neanche per sbaglio. Si parla solo di moduli, orari, questionari, affidamenti, contratti, requisiti minimi, crediti, ecc., in un gergo che maneggiano pochi e i più ignorano, assistendo inerti o confusi alla sfilza di sigle e procedure in cui solo ormai consistono le riunioni degli organi collegiali. Unica eccezione: è ammesso un breve, rituale lamento su questa deriva, purché poi chi lo fa non pretenda anche che si possa o debba fare qualcosa per fermarla.
La fine dell’intelligenza critica nei docenti va di pari passo con la fine di un insegnamento che puntava non solo alla fornitura di competenze ma anche alla formazione di teste libere e aperte. Mi spiegherò con un altro esempio genovese. Dopo aver corretto la prova scritta di alcune allieve del corso per maestre dovevo fare la media del voto da loro preso in questa con quello preso in un’altra e l’ho fatta cercando di correggere la matematica a favore delle studentesse. Ma la matematica e il buon senso non mi hanno consentito di dare lo stesso preciso premio a tutte, c’è stata a volte la differenza di mezzo punto. Ebbene, una giovane aspirante maestra ha protestato perché riteneva che alle sue colleghe avessi dato più che a lei. Ho troncato sul nascere la sua protesta solo perché non debba in futuro vergognarsi del suo gesto, magari quando, diventata una brava insegnante, si troverà davanti i petulanti genitori dell’allievo Bianchi che la rimprovereranno di aver dato al loro Mariotto mezzo punto in meno che al Giorgetto figlio dei Rossi. Ma la cosa preoccupante è che di questa immaturità non è colpevole la giovane, ma il tipo di formazione che le sta propinando la nuova università. Tutto essendo matematicamente descrivibile, anche il giudizio, il voto deve essere la risultante di un’operazione aritmetica, misurabile al millimetro, non di una valutazione umana, inevitabilmente variabile, imperfetta, per quanto accurata e saggia. Oggi una maestra è sollecitata ad apprendere le tecniche astratte di valutazione e autorizzata a ignorare i bambini che ha davanti, spinta a studiare più i metodi di insegnamento che le materie. Nei recenti concorsi a cattedre, la maggior parte dei bocciati è caduta sui metodi, le unità didattiche, i passi protocollari da compiere per arrivare al voto e assai meno ha contato quello che un aspirante maestro dovrebbe sapere di italiano, storia, geografia, matematica, scienze ecc.
Contro questa università, in cui le pubblicazioni si chiamano “prodotti”, l’insegnamento “offerta formativa” e i professori “punti organico”, mi sono battuto a lungo, prima con rabbia e poi stancamente; sempre vanamente; ora mi sono arreso. Noi professori di vecchia generazione abbiamo una colpa grave: abbiamo accettato una mutazione antropologica che ha atrofizzato le nostre capacità intellettuali e critiche, ridotto chi si è ostinato a usarle al residuo folclorico del vecchio rompiballe. Abbiamo dilapidato un’eredità con molte pecche ma non poche qualità, lasciandone una senza qualità e molte pecche.
L’università è diventata una macchina da procedure, misurate ossessivamente meno nell’unica cosa che conterebbe: i risultati, in termini sia di qualità professionali e culturali degli allievi, che di produzione scientifica e vivacità intellettuale dei professori. Tre più due ha dato zero.
Me ne vado dunque. Però con una speranza: che i giovani sappiano domani fare meglio di noi, di me. Fare peggio, in effetti, dovrebbe essere difficile.