Verso un’idea di città basata sulla riappropriazione dei beni comuni

di CARLO CUCCOMARINO

Il tentativo di mettere al centro dell’analisi il tema della pratica dei beni comuni per l’autogoverno del territorio è un vero spartiacque per i movimenti sociali. Un’ampia riflessione ha messo in evidenza un punto  fondamentale dei movimenti per il bene comune. Non si è trattato di lotte per il diritto alla città, come nella tradizione novecentesca, ma di movimenti in cui sono emerse singolarità insorgenti che sono diventate moltitudini in seguito a un processo di autoriconoscimento comune.

La città diventa luogo della politica dell’incontro, della politica del comune e non più solo l’ambito di lotte per la rivendicazione dei diritti (casa, trasporti, lavoro, salute, eccetera) da parte dei ceti subalterni.

Il “comune”, di fatti, è diventato la sostanza stessa della città. Beninteso, la città non è solo un ambiente costituito da edifici e strade, piazze e parchi, sistemi di smaltimento rifiuti e reti di comunicazione, e cosi via, ma è soprattutto il luogo delle dinamiche viventi, di pratiche culturali, di circuiti intellettuali, di reti affettive e istituzioni sociali.

La città è la fonte del “comune” è il ricettacolo in cui questo fluisce. Gli “elementi del comune” nella città non sono soltanto prerequisiti necessari alla produzione biopolitica ma anche i suoi prodotti. La biopolitica ci dice che la democrazia funziona solo se si riferisce effettivamente ai contenuti della vita e al modo di essere delle persone. La biopolitica mostra l’elemento negativo insito nella democrazia. Se questa è formale la biopolitica deostruisce il formalismo su cui essa si tiene. La biopolitica sembra dirci: guardate quegli individui che rappresentano “una testa e un voto” sono una scena che ne nasconde un’altra più forte, attraversata da conflitti e da rapporti di forza. La biopolitica si colloca nel punto in cui le categorie moderne della politica: sovranità, ordine, diritto eccetera,sono dispiegate nei punti alti della modernità dove il problema della conservazione della vita viene posto.

Le nostre città sembrano essere attraversate da esperienze molto diverse tra loro: dagli usi temporanei di spazi abbandonati, agli spazi verdi autogestiti, all’utilizzazione degli spazi pubblici per attività collettive organizzate alle occupazioni a scopo abitativo. Di sicuro l’azione e il pensiero politico sono trasformati attraverso la ricomposizione dei legami sociali. C’è bisogno di creare una tessitura incessante di una rete di relazioni sociali ricchissima, una pratica quotidiana di confronto. Si propone un percorso di autoformazione in comune che coinvolga gli abitanti attraverso momenti di condivisione, incontri, assemblee che facciano possibilmente nascere dibattiti pubblici.

Occorre fare un passo avanti perché la potenza dal basso di una città si esprime nella pratica sociale di commoning fra gruppi sociali plurali che difendono beni e servizi della città come “comune”, cioè non sottoposti a logiche di mercato, a politiche di austerity e al pareggio di bilancio.

Così si produce il divenire della resistenza in esercizio di contropotere e autonomia sociale, cioè la costituzione di luoghi di partecipazione diretta e di democrazia assoluta in difesa del divenire potenza comune e dello spazio urbano.

Pensiamo di fatti ai servizi pubblici locali come istituzioni del comune: i disagi della distribuzione dell’acqua, dei trasporti, del servizio dei rifiuti eccetera, devono farci ragionare in un’ottica di ripubblicizzazione di questi settori. Bisogna riprendere il tema dei settori e dei servizi importanti in una ottica pubblica, che significa ripensare complessivamente un modo organico delle destinazioni d’uso fuori dalle retoriche “green” del capitalismo.

Anche sul piano giurisprudenziale occorre fare un passo avanti. Rilevare pratiche e categorie politiche e giuridiche note come “multilevel”, che riconoscano una varietà di fonti del diritto e dei regolamenti, all’interno dei quali la spinta che proviene dalle istanze sociali sia riconosciuta.

Il piano di lotta e il piano giurisdizionale insieme possono dare luogo a contropoteri sociali in grado di invadere il campo istituzionale, come dimostra l’approvazione del Regolamento sui beni comuni nel comune di Rende. Da una parte, la resistenza diviene potere costituente utilizzando anche fonti di diritto borghese; dall’altra, invece, le “pratica di commoning” incarnano la volontà dei molti nella gestione dei servizi e dei beni pubblici intesi come elementi del “comune”.

E’ molto importante, in ogni caso, mantenere una distinzione tra “pubblico” e “comune”, perché il pubblico è una istituzione statale che prevede l’esistenza di una sfera di economia privata e relazioni sociali su cui non abbiamo il controllo. Lo ribadiamo: ciò che noi chiamiamo pubblico in realtà è costituito da ricchezze che abbiamo prodotto noi e per questo ce ne dobbiamo riappropriare. Noi usiamo spesso il concetto di beni comuni in riferimento a una gran varietà di beni pubblici che nel tempo abbiamo imparato a considerare come nostri, come il sistema sanitario, l’istruzione e lo stesso sistema pensionistico.

Tuttavia, c’è una cruciale differenza tra i beni comuni e il pubblico, dal momento che quest’ultimo è gestito dallo Stato e fuori dal nostro controllo. Ai fini della lotta per i beni comuni è fondamentale che non perdiamo di vista la distinzione.

Una delle sfide che oggi dobbiamo affrontare è di connettere le lotte per la difesa del pubblico con la costruzione dei beni comuni. I beni comuni infatti non sono dati, ma prodotti, ed è solo attraverso la cooperazione che possiamo crearli. Questo perché i beni comuni non sono essenzialmente materiali ma sono relazioni sociali, pratiche sociali costitutive. Ecco perché parliamo di  “comune”: per sottolineare il carattere relazionale di questa pratica politica.

Tuttavia, i beni comuni, possono garantire la riproduzione delle nostre vite. Sistemi idrici, terre, foreste, così come le varie forme di spazio urbano, sono indispensabili alla nostra sopravvivenza. Anche qui ciò che conta è la natura comune del lavoro di riproduzione e i mezzi di riproduzione coinvolti. Per garantire la nostra riproduzione i beni comuni devono comportare benessere comune, nella forma di risorse naturali o sociali condivise: terre, acqua, spazi urbani, sistemi di conoscenza e comunicazione devono tutte essere utilizzate non a scopo commerciale.

I beni comuni devono essere concepiti come spazi autonomi da cui reclamare un controllo sulle condizioni di riproduzione, e come base da cui contrastare il processo di recinzione e liberare sempre più le nostre vite dalla morsa dello stato e del mercato. I beni comuni che costruiamo possono consentire di ottenere più potere rispetto al capitale e allo Stato e di prefigurare un nuovo modello di produzione, non più costruito sul principio della competizione, ma su quello della solidarietà.

In conclusione, i beni comuni non sono solo un mezzo attraverso cui possiamo condividere in modo egualitario le risorse che produciamo, ma un impegno nella creazione di soggetti collettivi, nel perseguire interessi comuni in ogni aspetto della nostra vita. I beni comuni non sono il punto finale della lotta nella costruzione di un mondo anticapitalista, ma uno strumento a tal fine, perché nessuna lotta può avere successo nel cambiare il mondo se non organizziamo la nostra riproduzione in modo comunitario, se non ci limitiamo a condividere lo spazio e il tempo delle assemblee e delle manifestazioni, ma cominciamo a mettere le nostre vite in “comune”, organizzandole sulla base dei bisogni e delle possibilità.