Crisi al porto di Gioia Tauro: il capitalismo che divora sé stesso

di GAETANO ERRIGO

In poco più di un anno e mezzo, una nuova crisi travolge il porto di Gioia Tauro. Difatti, dopo la sentenza del Tribunale di Palmi che impone il reintegro dei 377 portuali licenziati nel luglio 2017, l’azienda, Mct, annuncia un nuovo blocco di esoneri per circa 500 unità.

   Alla base di tutto ci sta una continua e importante flessione in negativo dei movimenti di containers presso lo scalo gioiese ma, in realtà, come si può presumere dalla posizione strategica che questo occupa nel cuore del Mediterraneo, e che per secoli è stata l’ambizione di numerosi conquistatori stranieri che hanno invaso il Mezzogiorno d’Italia, le vere ragioni della crisi stanno altrove. Infatti la Mct è una società tra due colossi della portualità euromediterranea da qualche tempo in guerra tra loro per il controllo totale del sito: la Contship, che detiene le concessioni per la gestione del porto, e la Msc che è l’unico cliente e dal quale, quindi, dipende la movimentazione di containers. È nell’ambito di questo scontro che va ricercata la crisi del porto gioiese, uno scontro che sembra celare nuovi equilibri nella gestione delle attività marittimo-commerciali, nei mari del vecchio continente, e che andrebbe a ridisegnare la mappatura politica delle rotte con un rafforzamento di Msc nel Mediterraneo occidentale, ovvero sul lato tirrenico.

   Una situazione di tensione che, conseguentemente al calo della movimentazione, ha generato, in Contship, la volontà di ridurre il personale e di non investire sul rinnovo delle banchine e dei mezzi di lavoro nello scalo gioiese.

   Ma in quanto ad investimenti, Gioia Tauro, ha sempre avuto una triste storia. Basta pensare che le richieste di poter sdoganare sul luogo, anziché a Napoli, sono state sempre inevase. Oppure alla mancata concessione del “porto franco” per dare sgravi fiscali nell’imminenza dello scalo e al mancato sviluppo dell’area retroportuale dove l’insediamento di una zona industriale si è rivelato esclusivamente il terreno fertile per diverse imprese del nord che hanno percepito danaro pubblico per l’installazione di complessi produttivi e che invece si sono dileguate dopo aver incassato le ingenti somme. Ma anche alle occasioni fatte sfumare (di proposito?) per garantire collegamenti ferroviari più veloci tra lo scalo e il resto d’Europa. Tutt’oggi mancano poche centinaia di metri di strada ferrata per completare il semplice collegamento tra questo e la ferrovia. Un collegamento che dovrebbe essere completato con l’istituzione della Zona Economica Speciale (Zes), l’evoluzione del “porto franco” che dovrà garantire benefici economici a chi impianterà presidi produttivi nell’area, e sulla quale si auspicano seri controlli affinché questa non faccia la stessa fine della zona industriale. Oltre ciò si auspica che anche i piani attuativi della Zes si svolgano con una seria vigilanza in modo tale da garantire che i collegamenti ferroviari da installare siano davvero funzionali alle necessità, come anche i collegamenti con le varie realtà produttive della Calabria, ed affinché le operazioni necessarie si svolgano in tempi celeri evitando che le solite lungaggini porteranno a compimento il tutto quando ormai risulterà vetusto per i tempi.

   Ma, a dire il vero, è tutta la storia di questo porto ad essere molto travagliata. Infatti la sua nascita era stata pensata già nel 1970 quando, a seguito dei moti di Reggio Calabria per il capoluogo di Regione (predominata dal Msi, ma che aveva visto la partecipazione anche di alcune frange dell’estrema sinistra) e lo sventato golpe fascista di Junio Valerio Borghese, che proprio nei moti reggini e nelle cosche di ‘ndrangheta della provincia aveva trovato il terreno fertile per il suo piano eversivo, lo Stato si accorse che quanto accaduto nella punta dello stivale altro non era che la conseguenza della disperazione del popolo meridionale che reclamava sviluppo e lavoro per mettersi al passo col boom economico mondiale e fermare le ondate di emigrazione che, da lunghi decenni, spopolavano le contrade del Mezzogiorno. Così, insieme all’istituzione dell’Università a Cosenza e la costruzione di un’autostrada che giungesse all’estrema punta della Calabria, arriva la promessa della costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro al quale affiancare un porto commerciale. Nell’aprile del ’75 Giulio Andreotti partecipa alla posa della prima pietra dell’acciaieria che, in realtà, non verrà mai costruita deludendo ulteriormente i calabresi i quali, in una manifestazione a Roma, si recarono con una pietra di cartone, da consegnare in piazza al Ministro, a ricordo di quella cerimonia inaugurativa. Si cercò di rimediare con la promessa di una centrale elettrica a carbone ma, viste le caratteristiche del territorio, circondato ad est dalla catena appenninica, si rischiava di creare una cappa tossica sopra l’intera piana gioiese, così che una agguerrita protesta in loco riuscì a bloccare l’installazione dell’ecomostro che avrebbe avvelenato l’intera zona. Sfuma così anche la costruzione del porto commerciale fin quando, nel 1993, l’allora presidente di Contship, Angelo Ravano, decide di investire sul transhipment a Gioia Tauro (secondo alcuni conoscitori del settore è stata un’intuizione per sopperire ad una crisi che in Italia stava investendo il sistema portuale) ottenendo le concessioni dal Governo.

   Il Porto sarà operativo a partire dal 1995 e, finora, ha sempre lavorato e garantito occupazione. Certamente, nell’arco nel tempo, si sono verificati varie divergenze tra i lavoratori e l’azienda, ma le vertenze e i licenziamenti di massa che si stanno susseguendo, dal 2017 ad oggi, rischiano di mettere a repentaglio il proseguo della storia portuale gioiese. Il 19 febbraio, sulla situazione attuale, si è svolto un vertice presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Traporti tra titolare del Dicastero, lavoratori, sindacati e imprenditori. Contship non si è presentata, commettendo un errore strategico e provocando l’ira del segretario di Stato Toninelli, il quale ha manifestato la possibilità di revocare, entro tre mesi, le attuali concessioni e chiedere ad Msc di formalizzare gli impegni di investimento proposti, insieme a un piano di investimenti e sviluppo che ancora, però, non è stato presentato. In attesa di sviluppi, i lavoratori hanno posto fine al blocco ed hanno ripreso a lavorare nella speranza di vedere, nelle prossime settimane, volgere la situazione a proprio favore.

   Tutto sommato, chiunque sarà a spuntarla, il porto continuerà ad essere il possedimento di una potente società commerciale, con interessi sparsi per tutto il pianeta, che userà Gioia Tauro per rafforzare le sue posizioni senza badare alle esigenze dei lavoratori e del territorio. La via esclusiva per un vero rilancio dell’infrastruttura consiste nello scardinarsi da questo sistema capitalista, piegato da crisi e guerre intestine, e dar vita ad un nuovo sistema di gestione affidato direttamente a chi il porto lo vive lo fa andare avanti, cioè ai veri produttori: i lavoratori. Una soluzione, questa, che trova ostacoli nei protocolli dei Trattati di Maastricht del 1992, i quali hanno dato l’avvio alla privatizzazione dei porti di tutta Europa, ostacoli che però non sono insormontabili se pensiamo che in Spagna, l’applicazione delle norme in materia, stava per essere avviata solo tra il  2016 e il 2017 e bloccata grazie ad una viva protesta dei lavoratori che, per l’occasione, avevano paralizzato il Paese.