D’où venons nous? – L’origine

di ANTONIO NEGRI (in Uninomade, 2008)


Riproponiamo uno scritto di Negri del 2008, ricordatoci da Cristina Morini in un recente intervento su facebook, dal titolo L’origine,sul tema della «forma costituente»… “l’amore e la forza che producono il comune”.


Giacomo Leopardi, poeta del quale in anni di profonda solitudine sono stato amico, diceva: noi veniamo dal nulla e precipiteremo nel vuoto ma, fra questo vuoto e quel nulla, c’è il pieno dell’essere comune. Un filosofo che mi è compagno da molto tempo, Baruch Spinoza, riconosceva che attraverso l’odio della solitudine sorgeva e si sviluppava il desiderio della società e così si formava l’amore del comune. Un altro italiano, sempre immerso in quel comune che chiamiamo “polis”, tale Niccolò Machiavelli, mentre la rivoluzione umanista stava sfiorendo, si diceva: la natura del comune si istituisce nel ritorno dell’attività politica alla propria origine, alla propria forma costituente.

Vorrei oggi intrattenermi con voi nel commento di questi atti di immaginazione: nella storia alternativa del moderno, in quella linea democratica e sovversiva che rompe quella modernità che da Descartes porta a Hegel – fra Machiavelli, Spinoza e Leopardi, dunque – si definisce l’origine come forma costituente, amore e forza che producono il comune.

Ma prima di ragionare sull’eventualità del nesso costituente fra amore e comune, interroghiamoci sul concetto di origine, sulla sua creatività e cerchiamo di comprendere che cos’abbiano a che fare i principi della democrazia con l’origine, i valori della libertà con l’amore, e la solidarietà con l’attività che la istituisce: occorre insomma soffermarsi sul nesso di origine e principi e chiedersi se questo legame sia davvero produttivo. Ora, la risposta all’interrogativo è – per noi come per Machiavelli ( e per gli altri autori ai quali ci siamo riferiti) – duplice: quel che le democrazie, la libertà e la solidarietà hanno a vedere con l’origine, l’amore e i valori è insieme poco e molto.

Molto, per cominciare. Perché ogni concetto di origine esprime un principio, cioè una qualificazione e/o una direzione dell’essere che vi è radicato. Il principio ne costituisce l’ordine. Già nell’arché presocratico, origine e comando, produzione e senso si confondono e sembra fatale che, nello sviluppo della filosofia occidentale, quest’intima relazione continui a darsi. Così, dopo l’antichità greca-romana, interpretando il logos che si fa verbo, la filosofia costruisce un progetto trascendentale nel quale ordine dei valori e origine divina si intrecciano. Certo, poi, i Lumi renderanno umani, non divini, dunque, ma razionali, i valori e l’ordine dell’universo e ne declineranno la definizione nel senso del progresso. Ma il romanticismo richiamerà i Lumi all’ordine e intimamente, individualmente, li sottoporrà al comando della storia ed alla consistenza del costume. “Se la sorgente non sta nel fondo del tuo cuore, ecc…” – per riprendere qui le parole di Faust – i principi si confondono e si dissipano, poiché solo nel profondo, nel radicamento del destino, l’origine si ritrova e la dignità del valore si rinnova. Resta il fatto che origine è, nell’episteme egemone, classica come moderna, sempre origine di principi, in una sequenza che è di valore e di ordine.

Tuttavia, riproponendo la questione di quanto i principî  abbiano a che fare con l’origine, possiamo anche rispondere: poco. Perché quell’origine nella quale i principî sarebbero compresi, ci si presenta (quali che siano le figure del folklore filosofico) sempre e soprattutto come presupposto di identità, dunque come predeterminazione di sintesi metafisica. Voglio dire che quei principi non trovano legittimità che in riferimento – nel rinvio cioè – ad un piano di trascendenza, e si chiudono così in un circolo vizioso dal quale non usciranno più. Derrida lo ha notato più volte nella sua decostruzione delle trafile del moderno. Che cosa hanno infatti a che fare la ricchezza e la molteplicità dei principi e degli eventi con un’origine che si presenta qui come un vortice nel quale si consumano l’alterità e la differenza, come un punto metafisico che affonda in una sostanza opaca ogni novità del progetto vitale e riduce a ripetizione ed a destino la singolarità degli eventi? Il profondo è ostile alla differenza, nemico dell’immanenza.

È su questo nodo metafisico che si è insediata la percezione contemporanea di una crisi della modernità. Rainer Schürman ha insistito su questa crisi, l’ha definita come un insieme di “egemonie spezzate” (“hégemonies brisées”), e su di esse ha costruito un’efficace immagine della post-modernità – scorgendo in particolare nella filosofia heideggeriana la documentazione del dissolversi delle diverse forme nelle quali l’origine e i principi si erano appunto insieme organizzati nel pensiero del XIX e del XX secolo. Rispetto a che cosa si esercita potentemente l’“anarchia” heideggeriana? Rispetto alle figure conclusive della metafisica del moderno, analizzate nelle sue due principali figure: il neokantismo e il vitalismo – ovvero, per essere più chiari, le macchine dello schematismo nel pensiero trascendentale, e, nel vitalismo, la produzione di strutture formali di apprensione del reale.

Ora, nella prima di queste correnti, l’origine si propone nell’articolazione di principi che ondeggiano fra Vernunft e Verstand, fra Raison e Entendement, tra ragione e intelletto, che, se non possono cogliere il reale, permettono tuttavia di costruirne un ordine di esposizione. Lo scetticismo è qui organizzato in forma “critica” (o meglio sarebbe dire cinica? Non è lo stesso Heidegger che in “Holzwege” – quei cammini che non conducono da nessuna parte – cinicamente preconizza, per la metafisica occidentale, l’oblio di quell’origine terminata nel disastro e nella colpa?). Nella seconda corrente, invece, il flusso del vitalismo si articola in forme strutturali: origine e principi sono qui schiacciati l’una sugli altri ed il pensiero non può che sezionarne i movimenti che essi danno nel mondo, per tentare di comprenderli. La filosofia si trasforma in una sorta di tecnica di selezione cinematografica, come se l’apprensione dell’insieme non foss’altro che montaggio di infiniti fotogrammi: questo finiranno per raccontarsi i vitalisti. Fra Simmel, Bergson e Gentile, mutano solo le signatures delle forme nelle quali il flusso vitale è filtrato: forme sociali, o psicologiche, o dialettiche – secondo il caso. Anche qui il nichilismo trionfa e di nuovo Heidegger lo registra.

Chiariamo meglio questo passaggio. E cioè: i due casi ricordati, malgrado le loro evidenti differenze si prestano facilmente alla critica heideggeriana che loro oppone – proprio perché si tratta di denunciarne gli evidenti limiti – un vero e proprio nichilismo. L’an-arché heideggeriana, l’anarchia di Heidegger è esattamente questo: un lavoro di scavo per il mutuo rinvio dell’origine ai principi e vice versa. Nel segno di questa crisi, le strutture nelle quali il sapere si organizza divengono di colpo incontrollabili, variabili – figure di un’alterità irrecuperabile, istanze anarchiche appunto. L’origine ed i principi si sono staccati, hanno poco a che fare l’una con gli altri. Così, la storia è frazionata secondo forme – più o meno autocentrante, più o meno espansive – che non si definiscono come conoscenza della verità, ma come costruzioni estetiche o psicologizzanti, più o meno avanguardistiche. Non sarà per ciò difficile, a Nietzsche per esempio, davanti a Burckhardt o a Dilthey, rivendicare contro il flusso, contro la disposizione a definire “epoche” alla maniera di quadri immobili (che sembrano scatole per organizzare eventi altrimenti sfuggenti, tipi ideali che controllano il concreto solo perché lo impoveriscono) – di opporgli dunque il semplice principio dell’invenzione, dell’evento, della forza. Riconquistare così l’origine.

Più tardi, verrà quasi facile a Foucault, ancora nel momento in cui è fortemente intriso di strutturalismo, di riflettere alla nozione locale e periodizzata di episteme e di esprimere qui un’alternativa radicale, pensando ad un tempo la periodizzazione e la forza, la segmentazione storica e la creatività, ricentrando così la sua inchiesta – nel seno stesso di un lavoro storico –  sulla nozione di soggettività intesa come produzione. Una produzione di soggettività che sia anche una proposta di metamorfosi dell’essere, l’apertura ad una ontologia critica ed affermativa, immanente e potente. Bisognava dunque tornare al reale, all’interno di questo e riconoscerne la produttività: che cos’è dunque l’origine se non proprio questo? Bisognava riempire l’attività che costruisce il reale di contenuti e di principi. L’origine è sempre nelle cose, nel momento in cui queste si inventano, rilanciandosi senza fine: l’origine non è mai prima, essa non è mai nuda.

Torniamo a Heidegger. Era stato invitato a nozze – vale a dire che gli era davvero facile qui contrapporre, su quel terreno metafisico che abbiamo brevemente ricordato, la propria volontà di distruzione anarchica di ogni egemonia, ad ognuna di quelle filosofie che continuavano al contrario a legare origine e principi. E tuttavia la sua funzione si arrestava qui. Il concetto di origine – staccato ora da ogni principio – che egli a sua volta qui proponeva, stava tanto profondo che la storia degli uomini non poteva esserne toccata; lungi dall’essere reinvestita in un dispositivo positivo, l’origine era definitivamente confinata nel negativo: il nichilismo non era qui osteggiato ma rinnovato. Ciò che, in effetti, Heidegger propone, è la restaurazione di un essere statico (da leggere come la traduzione metafisica della reazione politica). Dalla distruzione feroce che egli porta contro le metafisiche del neokantismo e del vitalismo, le filosofie del postmoderno non potranno che trarre incitazione ad un libertinage sfrenato. Che fare, altrimenti, in questo deserto del negativo, imprigionato in una profondità inaccessibile? Se non si dà più alcuna misura dell’essere e nessun ordine, è perché ormai l’origine si è staccata dai principi. In realtà, questa constatazione della crisi, fatta dal di dentro, non è solo esperienza di un vuoto di contenuti attuale, ma è crisi di un’epoca, della modernità, e della cultura che la ha esaltata e dalla quale essa è stata esaltata.

Il primo Marx, giovane hegeliano di sinistra, aveva colto, un secolo prima, quasi di sorpresa, questa figura di crisi – non senza indignazione tuttavia, quando aveva scoperto l’accumulazione capitalista come motore di alienazione universale. Ne aveva tratto la conseguenza che da ciò derivasse, in positivo, la forza del proletariato, in negativo il riconoscimento della crisi del moderno, la denuncia di ogni sintesi culturale della sua storia e quindi di ogni forma di sovranità.

Sovranità – eccoci ad un altro punto, forse centrale, nel parlare di origine, di principi e di crisi. La sovranità è l’unico insieme di principi che instancabilmente, nella contemporaneità, si proclama come “origine” di ogni potere legittimo. Meglio, che si proclamava tale, assolutamente, fino a poco tempo fa. Ora questa convinzione è divenuta più debole. La sovranità riesce infatti sempre più difficilmente a rispondere alla propria pretesa di assolutezza, in particolare quando si confronta con il carattere deduttivo del processo giurisprudenziale (vale a dire che sempre più difficilmente l’efficacia della legge riesce ad esser inglobata e controllata nella continuità del processo normativo). Le sospensioni e le frammentazioni del suo funzionamento diventano invece sempre più evidenti. La sovranità è costretta piuttosto a consegnare i suoi poteri alla gestione manageriale degli affari di Stato, ad esprimere e a tradursi in quello che chiamiamo governance, su ogni terreno, sia su quello nazionale sia su quello internazionale… Le grandi crisi che hanno investito i processi di globalizzazione, gli tsunami finanziari, le guerre e i conflitti ecologici, mostrano le difficoltà che hanno i principi di equilibrio costituzionale e di ordine politico ad essere interpretati e validati in relazione alla loro origine – ma questa origine era appunto la sovranità! A meno che, svuotata di ogni principio, scavata e ripulita dal di dentro, la si possa richiamare in servizio e rimetterla in atto in condizioni del tutto originali: una sovranità come “potere di eccezione”. Quando mai “origine” si è spogliata di ogni qualificazione, liberata di ogni principio, fino a questo limite estremo?

È importante esser giunti a questo punto – e cioè dove, essendo penetrati, per così dire, fino alla “sorgente” dell’origine (della sovranità) ed aver mostrato con quale intensità essa sia stata svuotata, avvertiamo gli effetti di quella condizione che è ora la nostra: quell’origine che si risolveva continuamente nell’identità, si è disidentificata. L’origine è divenuta un punto vuoto, assolutamente vuoto. Che è come dire, allora, all’incontrario: capace di ogni altro riempimento e di forti alternative? Il postmoderno ha il grande merito di aver aperto questo passaggio e di averne, con enfasi, sottolineato le difficoltà che le caratterizzano. Sicché è ora attorno a questo vuoto che la crisi del concetto di origine cerca dispositivi che possano riqualificarla. Si potrà avanzare indicando il fatto che, davanti al vuoto, non c’è più alcuna origine, ma ci sono solo un prima e un poi? E che l’origine si potrà qualificare solo dentro questa topografia? Da dove veniamo? Ma questa domanda non è equivalente all’altra che su questo vuoto si esprime: dove andiamo? Siamo sulla creta montagnosa della vita e della storia – le domande si intrecciano, il rischio – meglio, più esattamente, la scelta – appaiono in piena luce.

L’ipotesi che vorrei rapidamente formulare, è che la crisi dell’origine (e della sua riduzione all’identità) e quindi la riapertura del problema della potenza sovrana (una volta che questa è stata ridotta a “potere di eccezione”), non stia in altro, né da altro sia prodotta, se non dalla resistenza dei soggetti. Il risultato nullo dell’equazione sovrana e cioè di ogni tentativo di sintesi tra potere e diritti, fra governo ed esperienza civile dei soggetti-cittadini-lavoratori, il risultato nullo di questa equazione che un tempo, nella modernità, nell’epoca dell’egemonia borghese, si esprimeva come identità, – è solo riconducibile alla resistenza dei soggetti. È così che avvertiamo che in realtà non c’è mai del “vuoto” in senso proprio – più si vuota la sovranità, più la resistenza riempia lo spazio liberato; più si nega la sovranità, più i principi della democrazia emergono.

L’origine vuota si riempie di una nuova “costituenza” – perdonatemi il neologismo –, della capacità di proporre nuovi diritti, d’una potenza del desiderio. Ogni forma di misura del potere, ogni rapporto tra origine e principi si sono ormai dissolti. Contro l’enfasi reazionaria, contro la pretesa alla purezza della sua specifica nozione di origine, quello che qui emerge è una resistenza. Una resistenza ancorata a quello strano punto che la sovranità ha finito per rendere totalmente vuoto e di cui l’eccezione ha cercato semplicemente d’essere una nuova forma (senza riuscire a farlo perché il vuoto brucia tutto quello che egli sta attorno). È dunque là, sul bordo del vuoto, che la resistenza appare in tutta la sua forza.

Foucault si è posto su questo bordo, laddove la sovranità non sapeva più disciplinare la società ed i dispositivi di controllo non potevano ormai che concludersi nell’eccezione. È il punto dove la sua ricerca si scontra con il nihilismo, dove tutti noi ci scontriamo con il nihilismo. Quale risposta propone Foucault? E noi, quale proposta decidiamo? Un primo approccio consiste nell’accettare di collocarsi su quel vuoto di origine e di principi che, pur spettrale, non è meno reale e di procedere da qui. Riflettendo su questa condizione e commentando il gesto foucaultiano, Deleuze si chiede: si dovrà forse accettare (a fronte del vuoto, nella condizione nihilista) che tutte le scelte, che tutti i principi si equivalgano? Beninteso, risponde: no. Quel nulla dell’origine è comunque segnato sulla scena dell’essere sulla quale appare: e ciò significa che esso non esiste fuori dalla storia o fuori da quelle determinazioni che questa fa pesare su ogni cosa. Ed è precisamente da quel punto che si tratta di riprendere il discorso. È, io credo, la fondamentale nozione di “dispositivo” che qui emerge. Si sa che Foucault utilizzava la nozione essenzialmente per dire un “diagramma di potere”. In Deleuze, soprattutto quando legge Foucault, la nozione si allarga: essa diviene anche, e in maniera inseparabile, il nome di una “linea di fuga”, di una “strategia di resistenza”. Un dispositivo è un meccanismo materiale, sociale, affettivo e cognitivo di produzione di soggettività, cioè l’origine di ogni movimento verso dei principi. E Deleuze aggiunge: “noi apparteniamo ai dispositivi ed agiamo all’interno di questi”. Agire nel loro segno: questo significa riorientare la conoscenza, dell’origine verso il divenire.

La seconda risposta vien fuori dentro questa stessa emergenza del dispositivo: la finalità del nostro agire, dentro il dispositivo, non è quella di riaffermare ciò che siamo, di ripetere l’identico, ma al contrario quella di affermare l’Altro, il nostro divenire-altro. Ma vi è un terzo punto che Deleuze propone. Quando avanziamo in questa direzione noi scopriamo (con Foucault) la nuova natura dell’origine – la sua trasformazione in un’attiva produzione del reale, in una potenza costituente, in un movimento costitutivo di principi che orientano nel divenire-altri. La qualità performativa del dispositivo si organizza inizialmente secondo delle contro-condotte e dei sistemi di resistenza. Ma poi, sempre di più, essa organizza nuovi orizzonti ontologicamente determinati. Ma questa non è la sigla di quel processo di costruzione del comune dal cui questionamento eravamo partiti?

La crisi del nihilismo ci permette dunque di collocarci su quel punto sul quale l’origine può infine presentarsi come produzione del comune. Ritorniamo all’inizio del nostro discorso: che immagine ci avevano proposto Machiavelli, Spinoza o Leopardi dell’origine del nostro attraversamento di questo mondo di cose e di problemi? Un’immagine che associava l’origine ad una potenza costituente, capace di costruzione radicale di una seria di principi cooptati nella produzione originaria stessa. Dove siamo dunque allora? Siamo davanti al sorgere di una differenza come forza ontologica che, rompendo con il destino nihilista della sovranità, presiede alla lotta contro la solitudine e conseguentemente alla costruzione del comune. Potremo chiamare amor questa differenza? O cupiditas? O semplicemente communis potentia? Forse. Non è qui importante. Importante è scoprire che il rapporto fra origine e principi è dato ormai solo come potenza di appartenenza ad un comune.

Ma come si può pretendere che l’appartenenza al comune costituisca la base del o d’un dispositivo dell’origine? Non lo si vuole certamente, qui. In realtà, se definissimo il comune immediatamente – direttamente come un’origine – esso diverrebbe il prodotto di un’operazione di svelamento che non ci condurrebbe molto lontano. L’affermazione del comune rischierebbe di mostrarsi come circolo vizioso perché (procedendo in quel modo) la sua scoperta come origine tenderebbe – ad un tempo – a presupporre ed a occultare la sua forza produttiva. E allora? Allora quel comune che cerchiamo, e che va esso stesso considerato prima di tutto come movimento, potrà reinvestire l’origine solo presentandosi come la tensione di un fare-comune, necessario per la vita degli uomini ed essenziale nell’attuale crisi del pensiero contemporaneo.

Ringraziamo Deleuze e Foucault di averci indicato questa linea sottile che attraverso la differenza e il desiderio (cupiditas et amor) scopre il comune. È così che l’origine, attraverso il dispositivo, apre all’Altro – altro luogo e altro tempo, sequenza di costruzione del comune degli uomini. Dallo svelamento (parziale e per certi versi vizioso) del comune come origine, al fare-comune, alla metamorfosi dell’essere – ecco la via maestra da seguire – e questa via è quella di una ontologia dell’immanenza.

Qual è allora quella forza che si organizza in scelta di vita, di valori, di amore, che si forma precisamente nel vuoto quand’esso si contrappone alla solitudine e all’impotenza? L’origine, quando sia vissuta in questo modo, diviene potere costituente – ma certo non come lo intendono i giuristi (vale a dire come un atto originario ma extra-giuridico). I giuristi dicono che il potere costituente fonda il diritto, ma che esso subito dopo scompare, che esso stabilisce la costituzione poi sparisce. Ed eccoci di nuovo all’origine come eccezione. Bisogna provare a pensare in maniera inversa: la potenza costituente è la scelta ed il rischio di un’origine che investe i sistemi e li rinnova continuamente. L’origine è la potenza della trasformazione. Essa non può non esser democratica perché essa è il richiamo dell’Altro divenuto comune. L’origine ha qui attinto e sviluppato i principi, essa si è liberata di quella fatale congiunzione che la voleva figura del comando nell’archè. Qui il comando scaturisce solo dalla libertà.

In secondo luogo, dopo aver riconosciuto la necessità che il potere costituente divenga una potenza continua all’interno del potere costituito e del diritto in vigore, vale a dire che sia capace di modificarne non solo singole leggi ma ogni legge ed ogni applicazione della legge in generale – che sia dunque capace di esser il motore della decostruzione e della ricostruzione dei nodi centrali della macchina giuridica – dopo aver visto questo, dunque, riprendiamo il filo del nostro discorso. E non è un caso se, da questo punto di vista, riconosceremo allora che i dispositivi costruttivi di ordine e di differenza producono ora quello che solo una forza ideale di innovazione ed una potenza pratica di libertà son capaci di produrre: un alfabeto interno di nuove forme di vita, di nuovi desideri e di nuove potenze di lotta. Ecco l’alternativa al nichilismo ed al potere di eccezione: il potere costituente è una freccia che descrive nel suo arco un nuovo ordine di principi comuni, il nuovo alfabeto di un nuovo linguaggio di libertà. Quell’origine là, occorre ora metterla in opera, concretamente.

Si tenga presente che su questo tema – quello dell’origine e dei principi di valore – non ho fatto altro che parafrasare le intuizioni che erano di Marx quando egli s’era dedicato alla critica del plusvalore ed alla costruzione del dispositivo di rovesciamento dell’accumulazione capitalista e dell’alienazione che questa produce. E quando, soprattutto, aveva dato corpo e concretezza all’utopia di alfabeti comuni prodotti dal lavoro cognitivo, dal general intellect, in una società radicalmente democratica. Da Marx (ma già nella linea alternativa della modernità, da Machiavelli e Spinoza) vorrei trarre un’ ultima indicazione a proposito di quel percorso che trasforma l’origine in una sorgente sempre aperta dell’avvenire. Essa consiste nel cogliere in quegli alfabeti del fare-comune che dissolvono (o smascherano) il circolo vizioso dello svelamento (puramente teorico, quindi metafisico) dell’origine, mettendo così quest’ultimo in nuova luce ed evidenza – la potenza di una produzione ontologica. Un fare che costruisce dell’essere nuovo. Sia esso la “forza” di Machiavelli, il “desiderio” spinozista o il “lavoro vivo” di Marx, in ogni caso la costruzione è comune, essa trasforma l’essere. Lo alfabetizza per ricostruirne il linguaggio, il discorso, la narrazione infine, e tutto questo libera una teleologia materialista della vita comune – che non ha paradossalmente né telos né certezza, se non il fatto che l’origine, come decisione e come rischio del produrre sono una sola cosa.

* 20e Le Monde – Le Mans – 16 novembre 2008