REPORT GIOIA TAURO (2019)

Gioia Tauro: i portuali pagheranno tutto al posto dell’azienda?


di ELISABETTA DELLA CORTE (in Sudcomune, agosto 2019)

La notizia era nell’aria e ha dell’incredibile: i portuali di Gioia Tauro, licenziati nel 2017 e poi riammessi dopo il giudizio del tribunale di Palmi, dovrebbero restituire all’Inps i soldi percepiti nel periodo di cassa integrazione.

Ripercorriamo brevemente alcune tappe di questa surreale vicenda. Negli anni che hanno preceduto la crisi del porto di Gioia Tauro, la Medcenter container terminal (MCT), la multinazionale italo-tedesca che per decenni aveva gestito il porto, aveva assunto con contratti a tempo determinato circa 300 lavoratori. Dopo vari rinnovi, superati i limiti di legge, un giudice decise che quei portuali dovevano essere assunti dall’azienda a tempo indeterminato3.

Nel 2016 l’azienda decide di licenziare 442 lavoratori, motivando il taglio con la crisi e il ridursi dei volumi di traffico. In quell’anno a novembre, dopo un debole tentativo di trattativa da parte del sindacato, 400 operai rimasero fuori dai cancelli, ma venne promesso loro che sarebbero stati ricollocati attraverso l’Agenzia del lavoro di cui parleremo tra breve4.

L’azienda tagliò, quindi, dal proprio bilancio i salari dei licenziati, che finirono, invece, nel girone della cassa integrazione straordinaria INPS.

Intanto il malcontento e le proteste dei lavoratori aumentavano. A metà del 2017, Governo, Regione Calabria, MCT, i sindacati CGIL, CISL; UIL, UGL, ad eccezione del SUL, firmano al Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti- allora capeggiato dal Ministro Delrio (Governo Renzi), l’intesa quadro per rilanciare il porto. Questo accordo prevedeva che 380 lavoratori sarebbero tornati a lavoro tramite l’Agenzia per il Lavoro, finanziata con 20 milioni di fondi pubblici; altri 150 milioni erano, invece, previsti per rilanciare il porto e realizzare le opere infrastrutturali necessarie per la diversificazione dei traffici. In sintesi, per tre anni gli operai licenziati sarebbero finiti nell’Agenzia del lavoro, con meno diritti e l’alea della precarietà, mentre 150 milioni di euro finivano nel pozzo senza fondo degli investimenti infrastrutturali, a vantaggio d’imprenditori e grandi costruttori.

A marzo del 2018 con le elezioni, con il nuovo governo M5s e Lega, Graziano Delrio cede le redini del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a Toninelli, e riparte così, in nome del rilancio e dello sviluppo, il giro di visite del nuovo ministro a Gioia Tauro e di ‘’pellegrinaggi’’  al Ministero, a Roma.  Intanto anche al porto c’è un passaggio di mano: MCT cede la gestione del porto, in crisi, a Mediterranean Shipping Company (MSC).

Intanto qualcosa però si era inceppato nel tentativo di precarizzazione del lavoro. Dopo il ricorso dei lavoratori licenziati del 2017 d si aprono degli spiragli. I giudici di Palmi (sezione lavoro), tra il 2018 e il 2019, sentenziano che la MCT non può licenziare e oltre al reintegro dei lavoratori, l’azienda avrebbe dovuto pagare le mensilità non corrisposte[. In seguito, in Corte d’appello, a marzo del 2019, è stata ribadita l’illegittimità dei licenziamenti, ma non il pagamento delle mensilità del periodo di disoccupazione. A questo punto, si arriva all’ultimo atto. Quest’anno, dopo ferragosto, proprio mentre anche il nuovo governo traballava per poi cadere, l’INPS ha inviato una lettera agli ex licenziati poi riassunti, e non all’azienda, chiedendo la restituzione della somma percepita come indennità di mancato avviamento (Ima), da agosto del 2017 a novembre del 2018. Si tratta di circa 20mila euro a testa, da rendere entro il 19 settembre di quest’anno con un unico versamento oppure a rate.  E’ chiaro che i soldi ricevuti sono serviti per sopravvivere in assenza di salario, per cui appare abbastanza bizzarro che debbano restituirli proprio i lavoratori licenziati e poi riassunti.

Ora i portuali, a partire dalla ricezione della missiva INPS, avranno 90 giorni di tempo per reagire, ricorrere nuovamente alle vie giudiziarie, nel tentativo di evitare oltre al danno la beffa: licenziati dall’azienda e costretti a restituire i soldi della cassa integrazione; come se quella sospensione dal lavoro fosse stata una loro scelta e non imposta da MCT.

Anche se questa storia appare surreale, se il parere dovesse essere sfavorevole, centinaia di persone saranno costrette a indebitarsi e a restituire ciò che, invece, era loro dovuto, subendo per l’ennesima volta un sopruso.  


L’assenteismo come risposta al regime lavorativo del porto


di ELISABETTA DELLA CORTE (in Sudcomune, agosto 2019)


Il commissario straordinario dell’Autorità portuale di Gioia Tauro, Andrea Agostinelli, ha sentito il bisogno, negli ultimi giorni di luglio, di richiamare l’attenzione sull’assenteismo nello scalo gioiese: L’Ansa ha riportato in un comunicato le sue dichiarazioni: “il 47% delle forza lavoro è assente dai turni per malattia, congedi parentali o ferie e sui circa 1200 portuali in servizio ben 293 sono inabili a svolgere alcune mansioni. Una follia. Così l’accompagnamento alla ripresa dello scalo potrebbe essere vana. Per mesi ho ascoltato gli sfoghi di che chiedeva lavoro e oggi lo rifiuta” (1).

Secondo il commissario questo alto tasso d’assenteismo  e la bassa produttività dei portuali gioiesi rischia di far fallire il rilancio del porto, dopo il passaggio di mano tra due colossi del commercio via mare, da MCT alla ‘’promettente’’ nuova gestione di MSC. Il metro di paragone usato dal commissario per valutare la produttività è quello dei portuali di Valencia, che riescono a muovere 36 container per ora a fronte dei 22 di Gioia Tauro. Guarda caso però, forse questo è sfuggito al commissario, i portuali di Valencia hanno stipendi più alti, condizioni di lavoro migliori, e un maggiore potere contrattuale; dovuto anche alla tenacia con cui perseguono gli obiettivi delle loro lotte. Così come dimostra la storia recente e quella passata, quel ‘’No un paso atras’’ , lo slogan delle lotte, non è stato solo un auspicio, infatti, negli ultimi anni,  per decine di giorni, hanno bloccato i porti  spagnoli per contrastare la svolta neoliberista. 

Questo sembra suggerire che prima di calcolare la produttività in termini di container movimentati per ora, supponendo così che ogni porto sia uguale all’altro, si dovrebbero considerare più fattori, allargando lo sguardo – attitudine questa che sembra oramai fuori moda oggi, nel mondo della comunicazione veloce e della post–verità. In questo caso, è semplicistico far dipendere la crisi, certo non recente, del porto dal comportamento dei lavoratori che si assentano, magari proprio quando hanno il diritto di andare in ferie, o di chiedere congedi parentali o per malattia, e non, ad esempio, dagli errori di gestione delle risorse umane, dall’insostenibilità dei carichi di lavoro, dai turni che sfasano per l’alterazione dei ritmi circadiani; come accade, ad esempio, dopo cinque notti di seguito al lavoro.  

E’ opportuno ricordare che gli operai di cui si parla sono gli stessi che pochi anni fa venivano lodati per i record raggiunti a Gioia Tauro, in quello che veniva chiamato il ‘’porto dei miracoli’’, dove  dei ‘’miracolosi’’ portuali calabresi venivano pagati meno e obbligati, a differenza dei loro colleghi del nord d’Italia o inglesi e spagnoli, a lavorare a ritmi serrati, per molte ore continuate, senza alternanza dal mezzo al piazzale, senza il tempo necessario per scendere dalla gru ed  usare il bagno.  

Il 47% è una defezione significativa, ma di per se questo dato non ci dice quanti sono stati i lavoratori assenti per ferie, permessi, malattie, disaffezione. Ci sono poi – è sempre Agostinelli a farcelo sapere (2) – 293 persone debilitate e quindi inabili a svolgere delle mansioni; e qui si aprono una serie di questioni sulle condizioni di lavoro e gli effetti sulla salute ampiamente studiate e dibattute- per chi volesse approfondire la conoscenza del fenomeno, sono centinaia gli articoli scientifici sul tema (3) – a cui si sommano alcuni testi che restano, quasi come pietre miliari, per affrontare, in modo meno ingenuo, la questione dell’assenteismo così come quella dello sfruttamento intensivo ed estensivo dei lavoratori portuali che, ironia della sorte- in tempo di post-verità tutto può accadere – vengono presentati come dei fannulloni, impegnati in un lavoro non troppo faticoso perché meccanizzato o automatizzato. E’ chiaro che chi ne parla, banalmente, non è mai salita/o su una gru e non ha mai movimentato container; ma al di là delle lacunose conoscenze empiriche, per fortuna non mancano ricerche sulle malattie professionali di questa mano d’opera che si ritrova a svolgere un lavoro usurante e a doverne fronteggiare i danni, senza che questi vengano neppure riconosciuti. Per dirlo in modo più semplice e chiaro, chi si assenta dal lavoro e chi non può più ricoprire delle mansioni spesso lo fa perché ha, non solo metaforicamente, le ossa rotte o l’umore depresso -per la perdita costante di sonno e la necessità di mantenere la concentrazione alta per movimentare container- un piccolo errore può essere fatale. Aspetti, questi, che le ricerche di medicina del lavoro hanno più volte evidenziato.  Ora se le cose stanno così, allora ci si aspetterebbe la convocazione di una nuova assemblea pubblica per discutere, questa volta, dei danni fisici e psichici subiti dai lavoratori, come prima emergenza che deriva dall’attuale regime di sfruttamento nella piana gioiese. 

C’è un bel video, ‘’La prima pietra’’, a cura di Nicola Orso (qui il link (4) che racconta la storia recente della piana gioiese – molti lo avranno già visto e se non fosse così, consigliamo di vederlo. E’ un documento prezioso per comprendere la storia dell’industrializzazione della piana, gli interessi in campo, la politica della Cassa per il Mezzogiorno, la retorica sviluppista della vecchia Democrazia Cristiana.  La storia ha inizio con la visita nella piana, nel 1975, di Giulio Andreotti (allora Ministro del bilancio e della programmazione economica), per la posa della prima pietra, e l’avvio dei lavori di adeguamento infrastrutturale per la costruzione del V polo siderurgico. Per fortuna il progetto fallì e Gioia Tauro non diventò, come Taranto, una città assediata dai veleni emessi dalle ciminiere; tuttavia rimasero chilometri di banchina, quintali di cemento, un paesaggio, oramai, irreversibilmente segnato. Ebbene, quel video riprende il discorso comiziale di Giulio Andreotti, con le autorità e parte degli abitanti, proprio tra le rovine di quel grande dissesto ambientale; tra olivi secolari sradicati, aranceti spazzati via dai mezzi di movimentazione. Andreotti ricorda che 75 miliardi sono stati accantonati e saranno spesi per i lavori; e poi elogia la scelta della produzione siderurgica a Taranto, rimarca l’importante opera del porto industriale di Gioia Tauro, il progetto speciale della Cassa per il Mezzogiorno per Gioia Tauro centro siderurgico e per tutte le industrie che sarebbero arrivate; e, infatti, prevedeva, ottimisticamente, che proprio questo progetto ‘’distruttivo’’ avrebbe potuto dare una ‘’spinta all’agricoltura e al turismo’’.  Era il 25 aprile del 1975, l’anniversario della Liberazione, e da abile retore Andreotti, in quell’occasione, sostiene che la sconfitta del fascismo e la fine della guerra deve ricordarci che bisogna sradicare la violenza e radicare la giustizia, in nome del meridionalismo attivo per un futuro democratico. Il video restituisce molte immagini dello scempio ambientale, con la voce di Andreotti in sottofondo che rilancia la rappresentazione di una regione afflitta che si apre all’arrivo dell’industria pesante, come grimaldello dello sviluppo. Sono passati alcuni decenni da allora e l’area industriale di Gioia Tauro non è mai veramente decollata – molti i capannoni vuoti e i fondi pubblici investiti senza raggiungere gli obiettivi prefissati. Tra i beneficiari di questo fiume di soldi per il famoso sviluppo anche molti imprenditori del nord che hanno sposato la logica del ‘’prendi i soldi e scappa’’. Milioni di euro sono stati stanziati, anche negli ultimi anni, per la realizzazione di grandi opere (5), senza che si sollevassero grandi discussioni sull’impatto ambientale, sulla logica stessa degli interventi programmati, ad esempio la Zes, e sui reali vantaggi di questo modello di sviluppo.   

A distanza di anni, quindi, quello che più sorprende è che dinanzi a danni così evidenti, sulle persone e l’ambiente, ci si meravigli solo per l’assenteismo della mano d’opera, distogliendo lo sguardo dalle scelte manageriali, e da quella che oggi viene chiamata, in modo soft,  ‘gestione delle risorse umane’, anche  se di umano, ad ascoltare le storie di chi lavora, c’è veramente ben poco.  


NOTE

(1)https://www.ansa.it/mare/notizie/portielogistica/news/2019/07/31/portigioia-t.-commissariocon-assenteismo-a-rischio-futuro_09d2a010-76f0-4779-bb12-0af0acbc0fed.html

(2)https://www.ansa.it/mare/notizie/portielogistica/news/2019/07/31/portigioia-t.-commissariocon-assenteismo-a-rischio-futuro_09d2a010-76f0-4779-bb12-0af0acbc0fed.html

(3)https://www.cambridge.org/core/journals/psychologicalmedicine/article/highrisk-occupations-for-suicide/54A4B47755BFB5289720433E05672FC6

Morris Greenberg, (Maggio 2004) The doctors and the dockers- https://doi.org/10.1002/ajim.20011

Angel, P., & Cannella, A. (2004). Executive Turnover Revisited From an Efficiency Wage Perspective. The Journal of the Iberoamerican Academy of Management, 2(1), 7-23. 

Locke, E. (1976). The nature and causes of Job Satisfaction. In Dunnette, M. D. (Ed.), Handbook of organizational and industrial psychology. Chicago. Rand. Mc. Nally. 

(4) https://www.youtube.com/watch?v=5UYKTCBthdg

(5)http://www.portodigioiatauro.it/files/PDF/Relazione%20annuale/Relazione%202016.pdf

Un altro rantolo nella lenta agonia del Porto di Gioia Tauro

di ELISABETTA DELLA CORTE (febbraio 2019)


Gioia Tauro, contro la precarizzazione del lavoro si blocca il porto

Da più di una settimana è di nuovo bloccato il porto di Gioia Tauro, sotto la minaccia di nuovi licenziamenti, circa 500 questa volta. 
Dopo il fallimento dell’incontro di martedì, 19 febbraio, al ministero dei trasporti tra gli attori interessati -a cui l’azienda Medcenter container Terminal (MCT) non si è presentata- si acuisce lo scenario di incertezza e timore per i licenziamenti in vista e  i volumi di traffico persi dallo scalo negli ultimi anni.  La promessa di 120 milioni d’investimenti da parte dell’azienda e l’aumento dei volumi, per rimontare dai 2,4 milioni di teu (unità di misura) di oggi a 4, tra due anni, sembra più una strategia per far rientrare al lavoro gli operai usando questa favolistica ripresa del porto, che suona quasi come una burla o, per il momento, come un ‘contentino’ senza fondamento.
Un altro rantolo nella lenta agonia del porto di Gioia Tauro, dove in meno di due anni l’azienda terminalista ha espulso un terzo della forza lavoro, licenziando 377 lavoratori, in parte poi rintegrati dal tribunale di Palmi nell’estate del 2017- uno dei motivi con cui l’azienda sembra voler giustificare ora i nuovi licenziamenti. 
Anche in quell’occasione, nei mesi della vertenza sui vecchi licenziamenti, tra la fine del 2016 e il 2017, il porto è stato più volte bloccato dagli operai in sciopero. Si è poi passati alla fase degli incontri con tutti gli attori interessati e ai viaggi verso Roma, al ministero dei trasporti, per discutere con ministri e sottosegretari dei piani di reintegro, dell’agenzia portuale e degli investimenti milionari- per rilanciare il porto ed evitare, senza riuscirci, lo scoglio di una seria crisi industriale. 
Intanto, dal 2017 al 2018, il porto calabrese ha visto calare i traffici del 12,5%; dal 2007 ad oggi il porto è sceso dal primo al nono posto. 
Tutto questo, a dire il vero, era stato ampiamente previsto, così com’era evidente che non ci sarebbe stato un rilancio del porto di Gioia Tauro, nonostante il programma quadro e le altre toppe messe ad arginare la falla dei mancati investimenti e degli errori aziendali. 

Le promesse mancate

In realtà a Gioia Tauro, nonostante le promesse, d’investimenti e innovazioni se ne sono visti pochi sulle banchine, perché il terminalista non ha investito. 
Già circa un anno fa, nel marzo 2018, il commissario straordinario dell’autorità portuale di Gioia Tauro, Agostinelli, dava all’azienda un aut aut: in 15 giorni MCT avrebbe dovuto fornire un programma dettagliato dei piani d’investimento e dei volumi di traffico previsti; informazioni non disponibili in nessun atto pubblico – stando a quanto sostenuto dal commissario speciale che si preoccupava di capire: “dei 155 milioni di euro investiti dall’Autorità portuale nel terminal e dell’interesse pubblico che lo Stato ha su questa infrastruttura.  Io non ho il mandato per fare la guerra al concessionario ma vorrei capire se con i 155 milioni investiti dal pubblico questo terminal è produttivo e quale ‘prognosi’ di produttività avremo”. Insomma il commissario si preoccupava già un anno fa di mettere nero su bianco gli impegni che l’azienda intendeva perseguire. La risposta della Medcenter container terminal, fu tutt’altro che rassicurante e abbastanza accennando a dei contrasti con l’azionista-cliente MSC. Motivi che il commissario Agostinelli trovò fragili – tanto da dichiarare che “le dinamiche aziendali del concessionario interessano fino a un certo punto. Se il cliente non va bene ci sarà un altro cliente. Che mi si dica che i loro accordi non funzionano a me non interessa. A me interessa che il terminal è poco produttivo in questo momento. Il decremento dei volumi è sotto gli occhi di tutti e non è stato smentito dal concessionario”.  Questo diceva il commissario straordinario dell’autorità portuale all’incirca un anno fa. Da allora non ci sono state inaspettate riprese. Il rilancio del porto di cui tanto si discute non sembra, per il momento, aver partorito nuove soluzioni, e le stesse fragili promesse di sviluppo legate all’istituzione della famosa Zes appaiono incerte, tanto da non poter immaginare, oggi, un presente o un futuro roseo per la piana, per i disoccupati/e, i licenziati degli ultimi anni, in attesa di un reintegro che sembra allontanarsi sempre più, nonostante molti di loro, come accennato, siano stati reintegrati dal tribunale di Palmi. 

La strana ‘sorpresa’ dei licenziamenti e le vecchie politiche di sviluppo

Ma veniamo a oggi, di nuovo l’azienda minaccia il licenziamento per centinaia di portuali. Stranamente alcuni rappresentanti sindacali si dicono sorpresi di questi nuovi licenziamenti, anche se, in effetti, non ci voleva molto a capire che il porto stava andando a picco per cause solo in parte strutturali e molto di più indotte dalla negligenza dei due azionisti MCT, Medcenter container terminal, compartecipata al 50% da Contship e MSC. Quest’ultima  la Mediterranean shipping company –Msc è anche l’unico armatore che usa lo scalo gioiese al momento. Stiamo parlando di grandi imprese del settore della logistica integrata che negli ultimi anni hanno risposto alla crisi con innovazioni e ristrutturazioni, per ridurre la spesa e mantenere alti i profitti, in particolare riducendo il personale e disinvestendo, come a Gioia Tauro, spostando da qui parte dei traffici in porti più convenienti. Nella vicenda Goia Tauro non tutto è chiaro. C’è poi la questione della revoca delle concessioni per la gestione del porto- azzerare e cercare nuovi clienti affidabili, per poi ripartire con un nuovo gestore o armatore- ma questa prospettiva dai lavoratori è percepita con il timore di un’ulteriore perdita di tempo. Quello che miracolisticamente molti auspicano, dai sindacati ai sindaci e politici a vari livelli, è che i due contendenti trovino una via per riconciliarsi in vista di una ripresa dei volumi di traffico negli anni a venire, anche grazie alla presenza della Zes- la famosa Zona economica speciale- ancora in alto mare e di un migliore adeguamento infrastrutturale con il gateway ferroviario e il bacino di carenaggio: il primo non ancora ultimato e il secondo ancora da concepire. Proprio sul bacino di carenaggio d’altra parte sarebbe più che mai opportuno comprendere e vigilare per ridurre i danni che questo tipo di opera comporta per l’ambiente marino, ma per il momento non se ne parla. In ogni modo al di là delle opere, da finire o intraprendere, il nocciolo della questione che continuamente e non a caso viene omesso nella discussione pubblica è se per l’ennesima volta non si stia puntando su un modello di sviluppo sbagliato. La questione è centrale, perché invece di dare per scontato che lo scenario delineato per la Piana sia non solo fattibile ma anche il migliore, si dovrebbe provare ad immaginare scenari alternativi di sviluppo, cosa che al momento non è tra le priorità, eppure sarebbe quanto mai necessario capire se il modello prefigurato è sostenibile, se ci sono alternative virtuose e questo non per il capriccio di ‘’inventarsi qualcosa di nuovo’’, ma alla luce del fatto che il modello centro-periferia, tipico ad esempio, degli interventi della cassa per il mezzogiorno, decisi a Roma e imposti al Sud, non sempre ha funzionato, come dimostra la storia dello sviluppo industriale al sud e le critiche di studiosi, si pensi, ad esempio, agli studi dello storico Oscar Greco, che ne hanno mostrato i limiti. 
Non possiamo qui riassumere la diatriba sui modelli di sviluppo, e il confronto, più o meno serrato tra le scuole di pensiero nel corso degli anni, ci limitiamo a evidenziarne alcuni aspetti nodali, rinviando ad alcuni testi per approfondimenti . 
Ci limitiamo solo a segnalare che le politiche regionali per lo sviluppo- un aspetto importante per comprendere come per colmare il divario e gli squilibri tra aree geografiche – nord/sud sono state adottate politiche di sviluppo, si pensi alla Cassa del Mezzogiorno negli anni ’60- che hanno acuito il male più che curarlo. L’idea cardine era quella per cui lo squilibro tra aree centrali, più ricche e industrializzare, e quelle periferiche, poteva essere ridotto o superato attraverso piani di sviluppo trainati dal centro e dalle risorse statali.  
Rintracciare nella storia recente i guasti del modello adottato allora, per evitare di compierli nuovamente, sarebbe cosa buona e giusta. Allora tocca guardare con occhio attento agli interventi delle politiche regionali: come ad esempio usare investimenti e imprese a partecipazione pubblica nelle aree fragili del paese, marginali, creando, come vedremo, un’economia periferica- dipendente dal centro- per i decenni a venire. Non possiamo qui soffermarci sulle origini del modello di cui stiamo trattando che risalgono ad un lavoro dei primi anni ’50 del secolo scorso di Francois Perroux, un economista francese.  Ci limitiamo solo a ricordare che vari perfezionamenti della teoria centro-periferia sono stati poi elaborati da vari autori, tra questi ricordiamo gli studi sulla Calabria del compianto Nanni Arrighi e di Fortunata Piselli, ora tradotti e raccolti in un libro dal titolo Il capitalismo in un contesto ostile, che ben descrive gli scenari socio-economici che si delineano a partire  dalla crisi ottocentesca del latifondo che dà  origine a tre modelli di sviluppo riferiti a tre aree: quella del Crotonese, del cosentino, e di Gioia Tauro. 
Quest’ultima da metà dell’ottocento segue un percorso diverso dalle altre due aree- spiegano i due studiosi: “Nella Piana di Gioia Tauro, invece, il latifondo contadino si evolse in un modo che ricorda quella che Lenin ha definito la “via degli agricoltori (farmers) o via americana”: i contadini diventavano agricoltori che producevano per il mercato. Alcuni di loro si trasformarono in piccoli capitalisti che impiegavano lavoratori salariati per coadiuvare in affitto parte del lavoro familiare, altri in semiproletari che offrivano in affitto parte del lavoro familiare per integrare i guadagni provenienti dalla vendita dei prodotti. In questo caso, i proprietari generalmente vendevano parte della loro terra ai contadini-coltivatori più ricchi, continuavano a riscuotere le rendite su un’altra parte, e diventavano imprenditori capitalisti di media grandezza in un’altra parte ancora dei loro possedimenti’’. 
La produzione di olio, agrumi e vino erano le attività prevalenti saldamente controllate a livello locale anche con metodi criminali, per la definizione dei prezzi, o l’uso e l’allocazione di lavoratori nelle stagioni di raccolta.  
Nella post-fazione Fortunata Piselli spiega quali sono le permanenze, le strategie di resistenza alla periferizzazione, e i cambiamenti rispetto al passato. In sintesi, la Calabria rimane, ancora oggi, una regione periferica, in cui è possibile però rintracciare delle strategie di resistenza alla periferizzazione. Quali? In primis, spiega Fortunata Piselli- attraverso ‘la clientela e la manipolazione clientelistica per entrare nelle catene di redistribuzione della ricchezza (fondi pubblici, posti di lavoro, appalti)’. Poi con la vecchia valvola dell’emigrazione, questa volta, intellettuale- migliaia di giovani partono dal sud per andare a studiare e cercare lavoro altrove.  Ed ancora, con la criminalità, gli unici attori- spiega la studiosa- che hanno avuto la capacità di estendersi a livello nazionale ed internazionale, con imprese di vario tipo- dal traffico di armi e droga all’investimento dei proventi in attività turistiche di lusso. 

Il territorio non è un asino: la piana e l’abuso di piani di sviluppo fallimentari

Perdura così la vecchia questione del mezzogiorno e del suo territorio, dell’assetto socio-economico – di un sud che non sarebbe più da svendere ma da preservare e curare con slancio partecipativo degli abitanti, come indicato da Alberto Magnaghi in un prezioso libro che tutti quelli che hanno a cuore il luogo in cui vivono dovrebbero leggere, in particolare politici e pianificatori, dal titolo illuminante ‘’Il territorio non è un asino’’.
Più volte si è detto che la piana di Gioia Tauro, un luogo di rara bellezza, non meritava di finire così, con ettari di terra ad un passo da un mare oramai sempre più inquinato, consegnati al cemento,  le banchine, le gru, un via vai di camion. Un paesaggio fortemente segnato dal porto e dall’insediamento industriale circostante; capannoni  abbandonati come immagine spettrale di ciò che resta di quelle ‘’imprese di rapina’’ che  nel mezzogiorno sono venute ad insediarsi attirate dalla possibilità di dragare fondi pubblici per poi lasciare i capannoni vuoti.  
Il porto nasce da un vecchio piano di sviluppo per il sud che prevedeva in Calabria il V polo siderurgico- per fortuna mai realizzato visti i morti che ha procurato a Taranto-  e rimane ‘’cosa morta’’ fino a  quando, con ottimo fiuto imprenditoriale, Angelo Ravano- il vecchio patriarca del trashipmet, fondatore di Contship- lautamente agevolato dagli aiuti statali, nel 1995, riapre il porto ai traffici containerizzati e al transhipment con una concessione d’uso per ben 50 anni. In quella fase, l’immaginario dominante, sostenuto da varie operazioni di marketing aziendale- come ad esempio un mega concerto di Lucio Dalla proprio tra banchine e gru- presentava quello di Gioia Tauro come ‘’il porto dei miracoli’’.  Negli anni è diventato uno dei maggiori scali del mediterraneo, anche grazie al lavoro di oltre un migliaio di portuali, che hanno lavorato in condizioni peggiori rispetto ai loro colleghi di altri porti storici. Gioia Tauro è stato all’inizio quello che il letteratura viene definito un green field, un prato verde a bassa conflittualità operaia e ad alta intensità di sfruttamento, che ha retto fino ad un certo punto, facilitato da una scarsa esperienza sindacale e una certa arrendevolezza alle esigenze spropositate del management per ritmi ed orari di lavoro. Tuttavia, l’imposizione della pace sociale è durata una manciata di anni, per poi far riemergere apertamente il conflitto sulle condizioni di sicurezza lavorativa, i trattamenti salariali; l’aumento della precarietà e di un regime produttivo sfiancante, stressante e pericoloso per i portuali. 
Purtroppo, la critica a questo modello non sembra uno dei problemi all’ordine del giorno, come molte altre cose che riguardano gli abusi sui luoghi e sulle persone. 
Che cosa è se non un abuso far vivere centinaia di persone in condizioni disumane come a Rosarno e aspettare che ci sia sempre una nuova morte, come per Moussa Ba, 29 anni, senegalese, a sommarsi alle altre vite perse nei roghi delle baracche per ridestarci? 
Infine, per chiudere senza concludere, spostiamoci per un attimo dal sud Italia al Portogallo, dove a dicembre scorso, dopo 40 giorni di sciopero dei portuali di Setubal  contro la precarietà, i piazzali erano pieni di auto Volkswagen. Certo noi siamo in Italia, al sud, e non in Portogallo, ma è meglio erudire Toninelli sul fatto che le lotte dei portuali possono essere molto difficili da governare soprattutto quando non si ha ben chiaro cosa fare o, peggio ancora, quando si usano vecchie ricette di sviluppo oramai inservibili, quelle che appunto trattavano il ‘territorio come un asino’.