Le rivolte sono desideri

di TOMMASO DI FRANCESCO (in Il Manifesto, ottobre 2019)


È in atto una transizione internazionale. L’urgenza che resta però scoperta è quella di trasformare l’istanza sociale in un programma di cambiamento di sistema, recuperando la categoria della «rivoluzione» come costitutiva della politica e della democrazia


Ribellarsi è giusto. E, a guardar bene, non c’è adesso un solo posto al mondo dove non siano in corso rivolte, domina ovunque una «stabile instabilità». La situazione è «eccellente», ma dentro un vuoto di senso e di indirizzo.

Parafrasando Peter Handke, potremmo dire in modo provocatorio che rischiamo da spettatori di assistere a «rivolte senza desideri». Non che il «senso» e l’«indirizzo» non siano evidenti , ma da un emisfero all’altro, le forme di ribellione allo stato di cose presenti assumono connotati contraddittori se non contrapposti.

Chiaramente contro le austerità imposte dal neoliberismo, l’America latina si rivolta, in Cile – che sconfigge la violenza di Piñera -, Ecuador, Argentina e Brasile, lì dove i governi di destra, portati al potere dalla protesta delle classi popolari abbandonate dalle promesse della sinistra di governo, si inverano alla fine con i carri armati che dopo il golpe di Pinochet nel 1973, sono riapparsi come spettri nelle piazze cilene dopo due generazioni.

Spesso protagoniste le popolazioni indigene, prime vittime del «progresso estrattivista» che devasta interi Stati (e mette in crisi anche le svolta positiva venezuelana). In Asia non c’è paragone tra le ribellioni antirazziste in Indonesia dove nei luoghi della ricchezza del mondo – le miniere d’oro –
i giovani di Papua attaccano la società islamo-classista di Giakarta; con le proteste di Hong Kong, sovradimensionate mediaticamente e tese a riaffermare i presunti valori occidentali con tanto di bandiere a stelle e striscie e britannica, nel momento del disastro della democrazia britannica (Boris Johnson ha perfino sospeso il Parlamento), ma che tuttavia evidenziano il nervo scoperto dei processi decisionali autoritari nella neoliberista – ma «comunista» – Cina di Xi Jinping.

In Africa dilaga da anni la protesta sociale contro i regimi corrotti ma resta incanalata in ottiche intestine, se non etniche, residuo del tardo-colonialismo che continua a dominare, oppure, come nel Sudafrica che fu di Mandela, assume connotati perfino xenofobi.

In Medio Oriente le manifestazioni in Algeria contro le responsabilità delle storiche leadership politiche e in Libano, in modo unitario – oltre la tradizionale divisione tra cristiani, sciiti e sunniti – contro il carovita, sembrano proporsi come alternativa alla protesta disperata dei palestinesi abbandonati da tutti, e alle guerre civili latenti in tutti i paesi eredi delle recenti guerre «umanitarie» occidentali.

Vale per la Libia «posto sicuro», e per l’Iraq dove ogni giorno è strage di manifestanti, ma soprattutto vale per la Siria ridotta in macerie dalle destabilizzazioni fallite, mentre è in corso il sanguinoso tradimento internazionale dei curdi siriani, gli unici che hanno praticato, in piena guerra contro l’Isis, non un modello di autodeterminazione nazionale, ma un processo democratico superiore, istituendo un autogoverno multietnico dal basso.

Anche l’Europa e l’Occidente sono in una fase di sconvolgimento. In primo luogo per il valore della protesta internazionale delle donne contro il dominio e la violenza di genere. Si estende poi la protesta dell’ultima generazione di giovani contro la riduzione a merce del pianeta nel precipizio dei cambiamenti climatici, non più negati dalle leadership al potere ma considerati solo una aggiunta programmatica di governo, non come chiave di trasformazione – e finora nessun sindacato ne ha fatto la propria bandiera, nonostante sia chiaro che proprio i lavoratori che riproducono la vita materiale dovrebbero essere i soggetti sociali dell’alternativa ambientale.

E intanto a Londra si protesta contro la Brexit, che porterà alla fine al piano scellerato di una Gran Bretagna di nuovo solo transatlantica e con la ferita aperta dell’Irlanda del Nord; in Francia cova sotto la cenere l’agitazione sociale dei gilets jaunes, nonostante che Macron sia tornato a recitare la parte di leader europeo e mondiale; in Spagna è davanti a tutti il conflitto, senza soluzione, che oppone la centralità di Madrid alla “generalità” della nazione catalana; non tralasciando l’Est Europa che insidia da destra la credibilità residua dell’Ue, e dove, come in Ucraina, la destra fascista torna a far paura in un paese che resta in guerra; e in Russia, attraversata dalla protesta della destra ma anche della sinistra contro l’autoritarismo di Putin; mentre in Italia la destra unita, da Berlusconi alla Lega fino a quella fascista, vola come un condor, nelle piazze che furono della sinistra, su istanze anti-sistema.

Tutto e il suo contrario, allora? Non proprio. La «politica politicista», nonché globalizzata è sotto tiro ovunque. Tutte le rivolte vedono come controparte un potere nemico, i governanti, spesso lontano anni luce dalle condizioni di vita dei governati; tutte sono inascoltate e non hanno sbocco politico; tutte hanno tra le mani, come inservibile e menzognero, lo strumento abusato della democrazia parlamentare, «regalata» delle strumentalità tardo-colonialiste oppure esportata con le armi. Nessuno crede più che la governance dell’esistente possa bastare per la soluzione della crisi economica, finanziaria, politica e sociale del mondo, assolutamente irrisolta e aggravata proprio dai processi globalizzati.

Per contro, siamo ormai senza più alcun funzionamento reale di organismi sovranazionali di riferimento, (l’Onu senza autorità e fondi, il Fmi le cui ricette producono nuova miseria, il Wto rotto dalle strategie sovraniste come quella di Trump sui dazi, la Ue senza unione, la Nato che riarma tra le macerie delle sue guerre).

Crisi che induce al miraggio di visioni nazionali», di indipendentismi e piccole patrie, distorte e controproducenti rispetto alla necessità di una superiore democrazia sovranazionale nei larghi spazi, mentre il neoliberismo rende periferiche le vite degli umani e precarizza gli sfruttati. Intanto scompare la centralità, anche formale, dei Diritti umani, come emerge ogni giorno di fronte alle migrazioni mondiali, all’epopea di donne, bambini, uomini e dei nuovi diritti che propongono nella disperazione della loro fuga dalla miseria e dalle guerre delle quali l’Occidente è spesso responsabile.

Ci troviamo di fronte ad una transizione internazionale. Ma l’urgenza che resta scoperta è quella di trasformare l’istanza sociale in un programma di cambiamento di sistema, recuperando la categoria della «rivoluzione» come costitutiva della politica e della democrazia (p.s. la stessa nostra Costituzione altrimenti resta solo un testo cartaceo bellissimo).

Che altro è la «sinistra che non c’è» se non l’avere abbandonato questo contenuto, riducendo tutto a «governismo» ineludibile?

Certo, i governi a un certo punto sono necessari, ma più necessario è immergersi nell’orizzonte dei movimenti in rivolta di questa nuova transizione internazionale. Perché ribellarsi è giusto. E desiderabile.