Lotte, sviluppo capitalistico e piano nel Mezzogiorno


All’origine dell’arrendevolezza dei meridionali


di FRANCESCO MARIA PEZZULLI (in Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni, n. 1/2, 2016)


Prima la lotta e poi lo sviluppo capitalistico è una sequenza già raccontata, in generale e per svariati contesti particolari, in lavori di straordinaria importanza (marxisti e non) che hanno contribuito al successo teorico metodologico, operaista, che ne sta alla base. Ci sembra comunque utile, in questo numero 1 di sudcomune, ripercorrere gli aspetti centrali della sequenza in questione a proposito dei momenti chiave dello sviluppo meridionale nel secondo dopoguerra; momento nel quale, come ha scritto Carlo Vercellone nel numero 0 «il movimento di occupazione delle terre ha costituito l’epicentro di un’azione collettiva e di forme cooperative di autogoverno della produzione e di accesso alle terre, che ricordano da vicino la logica del comune». Ritornare a quel periodo, oltre mezzo secolo dopo, nelle nostre intenzioni significa ripartire da un periodo in cui le lotte meridionali sono state a un tempo lotte contro lo sfruttamento e per il Comune. Socialmente, economicamente e politicamente siamo anni luce distanti dalle storie e vicende descritte di seguito, lo siamo meno per quanto riguarda i reali rapporti di potere dominanti, che da allora, feudali, hanno semplicemente conquistato il prefisso “neo”. 


. . . poi venne Mario Scelba, Ministro dell’interno, 
che fa sparar sul popolo e poi prega il padre eterno 
canzone popolare di protesta


Prima la lotta

«Melissa e tutte le lotte per l’occupazione delle terre negli anni 49-50 segnano per il Mezzogiorno la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova».

Questa citazione, tratta dai Quaderni Calabresi, sintetizza ciò che avvenne in quegli anni: lo sviluppo capitalistico dopo la lotta, detto altrimenti: la modernizzazione dopo la fine del movimento contadino, decretata dalla reazione armata della nascente repubblica parlamentare. 

Nel 1949, quando a Melissa vennero uccise tre persone e ferite una ventina, effettivamente la “questione meridionale” era già drammatica, con le agitazioni dei contadini, ininterrotte dal 1943, che sfociavano sempre più di frequente nell’occupazione delle terre. Un alleggerimento della tensione ci fu con i due decreti di Fausto Gullo che favorivano l’appropriazione delle terre e la loro coltivazione in cooperative da parte dei contadini ancora irreggimentati nei rapporti sociali del latifondo. Estromesso però il comunista Gullo da Ministro dell’Agricoltura il primo provvedimento di Antonio Segni – succedutogli nel secondo governo De Gasperi – fu quello di snaturare politicamente i decreti del suo predecessore. A questo punto le occupazioni ripresero con maggiore vigore e la “questione meridionale” divenne tout court la questione dell’insubordinazione nelle campagne. Per riportare solo alcuni casi significativi dello stato conflittuale dell’epoca basti pensare che nel periodo cruciale, dal 1944 al 1949, vennero inflitti ai cittadini di Lavello, che parteciparono in massa alle occupazioni di terre, oltre mille anni di carcere. Ancora, a Minervino, nel 1945, dopo numerosi ferimenti, l’arresto di due contadini e l’uccisione di un altro, il tenente a capo dell’operazione insieme a venti carabinieri venne trattenuto in ostaggio dalla popolazione per una ventina di giorni; dopo dei quali le forze dell’ordine furono costrette ad accettare lo “scambio dei prigionieri”. Verso la fine del ciclo di lotte, invece, nel 1949, sedici comuni delle province di Catanzaro e Cosenza decisero di occupare delle terre. Per l’operazione erano attesi dai dirigenti del Partito Comunista seimila contadini, che si sarebbero diretti verso i latifondi prestabiliti: all’appuntamento si presentarono in quattordicimila. Nello stesso anno, al tallone della penisola salentina, in quarantacinque giorni furono occupati più di mille ettari di terra. Una visione “indimenticabile” di Paolo Cinanni restituisce l’intensità di quelle giornate:

«Era ancora notte quel 17 settembre, quando i dirigenti avevano chiamato i lavoratori e le popolazioni a raccolta, in alcuni paesi al suono delle stesse campane, ma nei più al suono delle trombe, incamminandosi, ai primi chiarori dell’alba, verso le terre da occupare. Al sorgere del sole, dai poggi più alti si potevano scorgere le cento colonne in movimento; man mano che arrivavano sui terreni prescelti, esse issavano le bandiere sui pennoni più alti e iniziavano a “picchettare” e a dividere le terre; ciascuno incominciava poi ad arare la propria quota, non appena gli veniva “assegnata” dal “comitato”. Sulla parte pianeggiante e sui colli intorno era ovunque un brulicar di gente che andava e veniva, che misurava e piantava picchetti, che arava con l’asinello o zappava in fila con gli altri familiari: una visione straordinaria, indimenticabile!» (1)


All’apice delle lotte contadine, come accennato, l’intervento statale aumentò il livello repressivo e poliziesco e Mario Scelba comandò ai prefetti di intervenire duramente con la polizia verso ogni illegalità. Poche settimane dopo i fatti di Melissa è l’ambasciatore statunitense a Roma, in una riunione al Dipartimento di Stato americano, a indicare la rotta necessaria da seguire nel Mezzogiorno:

«Profondamente convinto come sono che la Riforma Fondiaria è una necessità politica per la sopravvivenza di un governo democratico in Italia, è per me ovvio ritenerla così necessaria da un punto di vista politico che essa andrebbe fatta anche se la produzione rischierà una riduzione temporanea» (2)


Sei mesi dopo queste parole venne varata la Riforma Agraria in Calabria che fu di lì a poco estesa alle altre regioni meridionali.


Poi lo sviluppo capitalistico

La Riforma venne salutata come uno di quegli eventi liberatori che di lì a poco avrebbe eliminato povertà e miseria. Ma le speranze e i desideri maturati nei processi di lotta dovettero cedere il passo al realismo della nuova società agricola. Era arrivato infatti il momento, parafrasando un famoso discorso di De Gasperi «di trasformare il contadino in proprietario là dove non è tale». 

Questa trasformazione negli anni ’50, con l’espulsione dalle campagne continua e massiccia, è possibile e incarna la strada democristiana per lo sviluppo meridionale di quegli anni (3). Nei fatti, con l’eccessivo spezzettamento dei terreni imposto dalle leggi di riforma, questa non elimina tra i contadini – emancipati per decreto a legittimi proprietari – sofferenze e rabbia, ora vissute sempre più frequentemente come preoccupazioni individuali e senza rimedio alcuno. È finita l’epoca delle lotte, comincia adesso per loro l’epoca della fuga. La Riforma Agraria promise la terra ai contadini e gliela concesse quando questa era divenuta capitalistica, inutile come un tempo a soddisfare i bisogni più elementari. Le “assegnazioni” furono spesso molto ristrette e di fatto favorirono i trasferimenti. La trasformazione invocata da De Gasperi era avvenuta: il contadino era divenuto proprietario, ma pochi di loro divennero anche capitalisti. Riprendono pertanto i flussi migratori, centomila l’anno, fino al 1957, pochi se confrontati con i numeri del decennio seguente, calmierati dagli investimenti della Cassa del Mezzogiorno nelle infrastrutture e nelle bonifiche agricole, in alcuni anni pari al 90% degli investimenti totali dell’intervento straordinario. Negli anni ’70 si registra un cambiamento sia nelle dimensioni che nei percorsi migratori, alle rotte transoceaniche sono sempre più preferite quelle europee e dell’industria nazionale che, in pieno boom economico, necessita di quote crescenti di forza lavoro operaia ed ha nel Sud il suo esercito di riserva. Tra l’Europa e il Nord la differenza è sostanziale, la Svizzera, il Belgio, la Francia e la Germania sono vissute come momentanee, circoscritte alla necessità di guadagno da poter utilizzare una volta rientrati. Partire per Torino, Milano, Genova, o in altra città industriale, è invece un fatto definitivo. Non si pensa a un rientro, tantomeno immediato; il contesto di partenza è criticato aspramente e molto spesso percepito come nemico e lontano, mentre il nuovo ruolo operaio, nonostante lo sfruttamento in fabbrica (contro il quale gli operai meridionali lottarono vigorosamente), è vissuto come fonte di aperture sociali, di protagonismo politico e di identificazione collettiva: 

«Sono uscito fuori e c’erano lì tanti operai e studenti davanti. C’erano davanti al cancello tutti i compagni che parlavano della lotta. C’erano lì i compagni che dicevano che avevo fatto bene a menare i guardioni. Che quel giorno era stata una grossa lotta e una grossa soddisfazione. E abbiamo fatto la riunione poi e tutte queste cose qua. Sono venuti in massa gli operai nel bar tanti che non ci si entrava. E lì ho conosciuto anche Emilio e Adriano tutti questi compagni qua. Eravamo tanti quella sera che si decise poi di fare le assemblee all’università. E quello fu l’inizio delle grandi lotte alla Fiat. Che era stato il 29 maggio quel giorno giovedì» (4)


Nel ventennio in considerazione hanno lasciato il Mezzogiorno per il Centro Nord all’incirca quattro milioni e mezzo di persone. Tra il 1960 e il 1962, poco prima dell’arresto del “boom”, si arriva a 300 mila partenze annue e i saldi migratori negativi del periodo superano 2,5 milioni di partenze. Sfollate le campagne, il processo d’accumulazione capitalistica investì in pieno il Mezzogiorno: gli indici della produzione agricola, sempre più meccanizzata, crebbero considerevolmente, di pari passo con il rivoluzionamento delle tecniche produttive e dei rapporti sociali tradizionali; mentre la grande proprietà latifondista cessa di esistere, colpita dagli espropri della Riforma Fondiaria (5). Nel frattempo 530 nuovi stabilimenti industriali vengono costruiti dal 1951 al 1958, quasi tutti nei settori manifatturieri. Gli operai, nello stesso periodo aumentano di quasi 200.000 unità e i salari medi annui passano da 280.000 a 384.000 lire. E siamo solo al principio, l’industrializzazione vera e propria deve infatti ancora venire: ai primi anni ’60 sono presenti 580 diversi finanziamenti pubblici per l’industria meridionale (pochi anni prima superavano di poco i 150) per un investimento totale di 138 miliardi di lire (pochi anni prima erano appena 30 miliardi). Con questi finanziamenti vennero costruiti altri 1.200 impianti ed ampliati oltre 1.000 stabilimenti. In questo decennio, in poche parole: l’agricoltura si è industrializzata, le campagne sono state sfollate e le opere infrastrutturali e industriali – per mano pubblica – iniziano ad abbondare (6). Il Mezzogiorno tradizionale è ormai un ricordo, che il procedere dell’urbanizzazione (le città già contengono più della metà degli abitanti del Sud) rende sempre più sbiadito rispetto alla nuova configurazione del Mezzogiorno cittadino (7). In questo periodo, lo sviluppo capitalistico ha così configurato la nuova formazione socioeconomica e culturale meridionale, irriconoscibile se confrontata con quella uscita dalla seconda guerra mondiale, fondata su un nuovo rapporto sociale che, per istituirsi, ha dovuto prima d’ogni altra cosa – secondo le ricette modernizzatrici di allora – sconfiggere le lotte per il comune dei contadini facendoli emigrare, disperdendoli in ogni parte del mondo.


… e poi il piano dello Stato

«Alla Cassa non può essere disconosciuto il compito di assistere la formazione e l’evoluzione dei poli di sviluppo agricoli, industriali e turistici, nei diversi aspetti organizzativi e funzionali, ad essa devoluti proprio dal legislatore che le imponeva di intervenire per complessi organici» (8)


Chissà cosa intendeva Gabriele Pescatore, allora Presidente della Cassa del Mezzogiorno, «per complessi organici». Di organico, negli anni ’60, da un punto di vista economico, pare proprio non ci sia nulla; mentre comincia a essere chiara, nel secondo tempo dell’intervento, una sua certa razionalità politica. Trasformate le condizioni della produzione e riproduzione sociale negli anni ’50, infatti, nel decennio seguente si trattò di gestire i problemi sociali e politici complessivi che la trasformazione aveva imposto. L’intervento straordinario a questo punto, particolarmente duttile nel combinare la stabilità istituzionale con la pace sociale, venne subordinato agli interessi di mediazione politica del principale partito di governo, cosicché divenne sempre più ampia la forbice tra gli obiettivi dichiarati e quelli realmente perseguiti. Non è certo un caso, come ricordava Augusto Graziani, che i poli di sviluppo effettivi furono tre o quattro mentre sotto il profilo amministrativo, tra aree e nuclei, ne sorsero almeno un centinaio (9). Con gli anni ’70, in effetti, la sovradeterminazione politica del Piano di sviluppo fu progressiva e man mano divenne totale (10); al punto che, nel 1983, a livello politico istituzionale si prende atto dell’insostenibilità della direzione assunta e viene deciso di terminare l’esperienza della “Cassa” (11).

Tra il primo e il secondo intervento straordinario, in altre parole, si è consumata quella che gli scienziati sociali hanno definito “la grande trasformazione” del Mezzogiorno, che ha avuto la Democrazia Cristiana come attore supremo, attore che è riuscito – grazie al rapporto diretto con le casse dello stato – a governare il Sud instaurando un sistema di clientele orizzontali perfezionatesi man mano nel corso dei decenni. Quando si dice che la Democrazia Cristiana è stata un partito popolare e interclassista è senza dubbio vero anche per il Mezzogiorno, e lo strumento adottato per diventare tale fu quello del clientelismo più becero, che ha scambiato diritti con favori, che ha corrotto intere generazioni di meridionali “rimasti”, costretti a vendere lo status di cittadini per acquisire quello di sudditi.

Nel periodo descritto, da un certo momento in poi, non c’è più spazio per il notabile d’un tempo, una figura tutta interna alla società meridionale, una sua espressione locale, che assegnava lavoro in cambio di voti, fedeltà e ubbidienza secondo i medioevali criteri del rispetto e della protezione. I Mediatori democristiani, come ha efficacemente spiegato, tra gli altri, Gabriella Gribaudi, sono stati invece dentro e fuori contemporaneamente, un anello di congiunzione utile sia al centro che alla periferia. Sono statti uno strato sociale che ha tratto profitto e potere personale mediando tra due entità separate come le società locali e lo stato. I broker democristiani hanno orientato i flussi di economia pubblica, e anche favorito la penetrazione del mercato nel Mezzogiorno senza che si creassero squilibri destabilizzanti per la struttura sociale.

«La DC che ha in questi anni incarnato lo Stato, ha espresso questa funzione mediatori tra nord e sud, tra centro e società locale. L’intervento economico nel sud scaturisce da questa doppia mediazione. I contenuti della politica nazionale, frutto di un’intesa con il nord, la penetrazione ritenuti necessaria degli elementi culturali e materiali della cosiddetta “civiltà industriale” vengono mediati dai rappresentanti locali della DC: la loro funzione consiste nella capacità di trasformare un intervento esterno estraneo alla cultura e al tessuto economico locale, in un intervento accettabile e compreso dalla comunità. L’efficacia della DC è consistita nel saper parlare di tecnica e di sviluppo, offrire consumi e reddito con il linguaggio della comunità, riferendosi ai valori della società locale» (12).


Da un certo punto di vista sono stati i soggetti principali del piano di sviluppo, dal momento che hanno accompagnato l’intervento straordinario lungo i mille tracciati dei trasferimenti pubblici. Sono stati soggetti economici e politici a un tempo, hanno reso possibile, praticamente, lo scambio politico clientelare che ha addomesticato la società meridionale per un trentennio circa e che continua ancora oggi, mutatis mutandis, a pesare come un incubo nella vita e nella mente dei meridionali.



NOTE


(1) P. Cinanni, Terre pubbliche e Mezzogiorno, Feltrinelli, Milano 1977. Cit. pag. 46.

(2) James Dunn, riunione al Dipartimento di Stato del 23/11/1949, cit. in E. Bernardi, La Riforma Agraria in Italia e gli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna 2005

(3) La Democrazia Cristiana fu la migliore interprete della Riforma Agraria. Il Partito Comunista, invece, adottò una “strategia di larghe alleanze” per gli obiettivi di Riforma che si rivelò disastrosa. Nonostante le «riserve di combattività tra i contadini che non conoscevamo», come disse lo stesso Togliatti, si privilegiò un «movimento per la riforma» che riuniva in sé operai, braccianti, artigiani, contadini, piccola borghesia, professionisti, eccetera; insomma, «tutta la popolazione», come ribadito assiduamente dai “Comitati” costituiti dal Partito nel 1947. L’opzione gramsciana di alleare i contadini poveri del Mezzogiorno e gli operai del Nord già all’epoca era lettera morta, troppo distante e contraddittoria per la «via italiana al socialismo». 

(4) N. Balestrini, Vogliamo tutto, Arnoldo Mondadori, Milano 2013. Cit. pag. 93-94. Sui processi migratori come veicolo di lotta, vedi L. Ferrari Bravo – A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, Feltrinelli, Milano 1971.

(5) In generale, nel decennio 1950 – 1960, quasi un milione di ettari vennero suddivisi dai vari enti di riforma. Si stipularono 285 mila passaggi di proprietà e si assegnarono circa 400 mila ettari di terre a contadini poveri. Nello stesso periodo la Produzione Lorda Vendibile passò da un valore di 614.682 (=100 nel ’50) ad uno di 1.122.000 (=182,5 nel ’59). Mentre l’investimento pubblico nell’agricoltura meridionale fu mediamente il 64% dell’investimento agricolo pubblico totale, con la punta massima dell’83% nel 1954. 

(6) I dati sono tratti dal lavoro del capo del servizio industria, artigianato, pesca, turismo ed edilizia scolastica della “Cassa”: M. Besusso, Analisi e prospettive dello sviluppo industriale nel Mezzogiorno, in Cassa per il Mezzogiorno. Dodici anni (1950 – 1962), Volume V, Laterza, Bari 1962.

(7) Napoli, come area metropolitana insieme ai centri minori del salernitano e del casertano, nei primi anni ’70 conta oltre 3,5 milioni (il 20% della popolazione totale meridionale). Nello stesso anno Palermo raggiunge 700 mila abitanti, mentre Bari e Catania superano abbondantemente i 300 mila, e cosi via per numerosi centri. L’approccio del Mezzogiorno cittadino è ben rappresentato dai lavori di Francesco Compagna. Vedi, in particolare, La Politica della Città, Laterza, Bari 1967 e Urbanizzazione Nord e Sud, in G. Germani, a cura di, Urbanizzazione e modernizzazione, Il Mulino, Bologna 1975.

(8) G. Pescatore, Origine e caratteri dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, in Cassa per il Mezzogiorno. Dodici anni (1950 – 1962), Volume I, Laterza, Bari 1962.

(9) Augusto Graziani, I conti senza l’oste. Quindici anni di economia italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Cit. pag. 161. 

(10) Un riferimento indirettamente legato alla sovradeterminazione politica del Piano di sviluppo è dato da una serie di indicatori socioeconomici, tra i quali: tra il 1970 ed il 1989 l’occupazione totale meridionale cresce di 900 mila unità, i due terzi delle quali sono nella pubblica amministrazione; nella prima metà degli anni ’80 i contributi ai settori produttivi meridionali sono circa la metà rispetto al quinquennio precedente; la spesa per “incentivi” alle imprese è stata di 1.000 miliardi di lire inferiore a quella del decennio precedente; il Prodotto lordo per abitante cresce della metà rispetto a quello dei consumi privati per abitante.  

(11) Con la legge 64 del 1986 le risorse finanziarie vengono delegate ad una “Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno” e ha inizio il secondo intervento straordinario, che non ha fatto meglio del primo sul versante della programmazione dello sviluppo, ha fatto solo meno avendo a disposizione minori risorse economiche. 

(12) G. Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Rosemberg& Sellier, Torino 1980. Cit. pag. 22.