Sulla città e il municipalismo


di CARLO CUCCOMARINO E FRANCO PIPERNO

Con grandissimo dolore per la scomparsa del nostro Carlo Cuccomarino, in occasione dell’incontro organizzato da Radio Ciroma in sua memoria ed onore, pubblichiamo il dialogo tra Franco Piperno e Carlo “Sulla città e il municipalismo”, pubblicato nel 2016 sul numero 1/2 della “sua” Rivista Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni


La Città al tempo del Neoliberismo


Carlo: Io credo che il neoliberismo non sia soltanto un regime politico, ma un sistema sociale che organizza la vita nella sua totalità. Il neoliberismo è una dinamica di produzione di affetti, desideri, soggettività, e il suo obiettivo è quello di cambiare “i cuori e le anime delle persone”. Non è un sistema che possiamo bloccare occupandone semplicemente i luoghi del potere e della rappresentanza. A me pare che siamo entrati in un’epoca nella quale sia in atto “un divenire mondo del capitale attraverso gli strumenti della governamentalità liberista”. La crisi, la precarietà e il debito noi li sentiamo prima di tutto sui nostri corpi, sulle nostre vite. Dovremmo, dunque, iniziare a pensare cosa oggi potrebbe esserci ancora utile politicamente; e se, ad esempio, la conquista elettorale dei governi comunali è una di queste cose.


Franco: Per la verità il neoliberismo non mi pare introduca novità di rilievo nelle relazioni sociali; piuttosto è un ritorno all’origine, a prima del sindacato, alle condizioni che permettono una nuova accumulazione originaria. Ciò che caratterizza il neoliberismo nella fase storica che attraversiamo è proprio l’unificazione tendenziale del mercato mondiale, circostanza questa già tentata nella storia occidentale con gli imperi, ma che mai precedentemente aveva assunto dimensioni planetarie. L’altra faccia di questa unificazione è la vigenza di un principio di individuazione che trasforma ogni essere umano in un consumatore, dato che la produzione è affidata via via alla macchina automatica. Da qui quella evaporazione del corpo, quella sorta di uguaglianza perversa che tende a soffocare le diversità, siano esse naturali o culturali, per dare a tutti le stesse cose, fatta salva una differenza quantitativa. Una sorta di paranoia all’opera sulla questione ambientale, per esempio, autorizza la distopia che ripromette di pilotare il pianeta; o ancora, sul tema del reddito, si avanzano proposte di salarizzazione del mondo, una sorta di salario planetario che prescinde dal sistema economico sociale nel quale si riconosce ed è collocato l’individuo concreto. Da questo punto di vista il ritorno alla città è un procedimento simbolico per ripristinare la diversità delle forme di vita almeno per quel che concerne il nostro paese.


Carlo: Riprendo questa tua ultima affermazione sull’importanza di ripristinare la diversità delle forme di vita. Ho sempre pensato che la libertà vera è quella che nasce dal riconoscersi, gli uni dagli altri, come esseri differenti che riescono però a mettersi assieme. Questo concetto di libertà, nella mia vita, è andato sempre integrandosi con altre forme di vita in comune: prima con gli operai, oggi con il lavoro intellettuale, immateriale, cognitivo. Anche nei movimenti di cui abbiamo fatto parte, o che ci hanno attraversato, la libertà ha sempre fatto parte del comune. Come questo desiderio che aveva caratterizzato la nascita della democrazia si sia progressivamente affievolito, immiserito, all’interno dello sviluppo capitalistico è il grande problema, oggi esploso con la crisi finanziaria. Attualmente pare che la funzione progressiva e civilizzatrice del capitalismo è completamente venuta meno e che ci troviamo di fronte a un comando che non corrisponde più alle sue funzioni storiche: produrre ricchezza, plusvalore, profitti, eccetera. Assistiamo a forme di comando sempre più potenti, che si esprimono attraverso l’imposizione di un debito, attraverso una mediatizzazione sempre più alienante, che omogeneizza, invece di aiutare lo sviluppo delle singolarità, che introduce paura nella vita, che diventa sempre più sicurizzante e cosi via. Credo che oggi, per capire la città al tempo della globalizzazione, bisogna attingere anche a questi elementi di riflessione per declinarli nella città, intesa come ambito principale nel quale sviluppare la creatività necessaria per il pensiero e l’azione politica.


Franco: Concordo su pressoché tutti i tuoi argomenti; osservo solo che un certo pessimismo, diffuso tra di noi, è in buona parte legato alla difficoltà d’agire. Sai, io non credo che ci siano fenomeni nuovi o nuovissimi, ma solo fenomeni che si ripetono su cicli quantitativi diversi. Sarà per il predominio logico della fisica nella mia formazione, ma penso che la scienza presupponga degli invarianti, delle grandezze sottratte al tempo e allo spazio, tempo e spazio sono modi di pensare non già condizioni nelle quali ci tocca vivere. Tutto questo suona un po’ astratto anche per via delle mie difficoltà ad argomentare adeguatamente – l’astrazione qui mi serve per sgravarmi del peso delle scienze, in ultima analisi della tecno scienza come della geopolitica, un mondo che annienta la singolarità. Per dirla in altro modo, io trovo che il sentiero da percorrere è quello di costruire comunità e successivamente città dal momento che la città libera è solo una “comunità di comunità”. Così ho attenzione per la vita e la morte dei kibuzz sionisti, come delle comuni anarchiche di Catalogna e ancora dei narodnkj russi nonché dell’antica Repubblica romana o dell’agorà greca. Ho detto tutto questo rozzamente perché volevo comunicarti la mia critica a qualsiasi idea di partito, portatore di strategie o ancor peggio di tattiche a livello globale. Nel globale siamo tutti morti.


La città come luogo creativo per il pensiero politico


Carlo: Proviamo, dunque, a confinare queste nostre brevi riflessioni volutamente alla questione delle città, perché immagino che siamo entrambi persuasi che la stessa è sempre una limitazione creativa per il pensiero politico. Sulla città, come ben sappiamo, si annodano tante questioni, tra le altre: la città come luogo che limita lo spazio per rendere commensurabili le relazioni temporali tra le persone. Ho l’impressione che questo carattere sia oggi fonte di molte contraddizioni. Da un lato, il tempo si accelera nelle reti della conoscenza e della comunicazione globalizzata (il mondo a portata di mano non solo in internet, ma negli stili di vita, nella finanziarizzazione dell’economia, nell’azione criminale, nelle sensibilità artistiche, perfino nei sapori); da un altro, lo spazio si confina e risucchia la sfera morale, riporta l’etica al suo significato originario di ethos, cioè nicchia. Si formano così due grandi famiglie di conflitti: temporali e spaziali. I primi segnano il verso globale e i secondi agiscono come suo contrario, i primi liberano energie e i secondi le trattengono. Le diverse forme e gradazioni di questa scissione spazio temporale modellano l’organizzazione sociale, i rapporti tra le persone e la loro stessa condizione esistenziale. Sappiamo come la città sia il terreno in cui da sempre nascono i sommovimenti politici e forse quella del ventunesimo secolo va ripensata in divenire, come luogo di rivoluzioni urbane possibili; proprio a partire dai suoi margini, che per la preponderanza rispetto ai centri, rappresentano molto spesso la sostanza delle città stesse, l’ambito in cui si gioca una sotterranea partita dei diritti, tra sgomberi e resistenze, tra sorveglianza e illegalità, tra autoritarismo ed embrioni di consapevolezza politica. Quale è allora il modello di città destinato ad affermarsi nel ventunesimo secolo? E di chi saranno le città del futuro?
Dubbi sempre più consistenti vengono avanzati sulla capacità delle città europee di reggere alle trasformazioni economiche e sociali e continuare a funzionare nei termini emancipatori. Il modello di città europea viene sfidato nelle sue caratteristiche fondamentali nel momento in cui la crescente polarizzazione sociale sembra mettere in discussione proprio la capacità d’integrazione della città e minaccia al contempo la sua autorganizzazione e capacità di decisione. Lo spazio di azione delle amministrazioni locali si riduce, così come la loro capacità di giocare il ruolo di soggetti autonomi nell’arena della globalizzazione. La situazione attuale dei poteri planetari, riapre la questione di chi è la città sotto due diversi profili: quello di chi comanda, dei poteri che la governano, e quello della città come luogo di espansione e consolidamento dei diritti. Insomma l’antica questione delle centrali del potere e dell’autonomia della città torna a riproporsi, in termini non soltanto  giuridici, quanto piuttosto di definizione e ridefinizione del diritto come spazio conflittuale, come luogo in cui si delineano gli ambiti e le forme di determinate acquisizioni individuali e collettive. L’interrogativo di chi comanda mi appare perciò aperto come mai in passato e la questione dell’autodeterminazione, del potere nella città e della stessa democrazia si viene a porre come uno dei grandi problemi insoluti che abbiamo.


Franco: Condivido la tua proposta di circoscrivere la nostra discussione alla città, per renderla in qualche modo esperibile. Ma allora non ha senso parlare di spazio e tempo come fossero condizioni del reale e non convenzioni linguistiche, sicché esistono una molteplicità di tempi e misure spaziali in numero quasi pari ai luoghi dove vi è persistenza abitativa. C’è, è vero, un tempo che in occidente tenta di porsi come un universale; ed è il tempo del denaro, dell’interesse composto del capitale finanziario, come aveva lucidamente affermato Keynes. La rete, la globalizzazione, non fanno che affrettare l’instaurarsi di questo tempo universale ma non comportano alcune novità significative. L’omologazione del genere umano coincide con la vigenza del tempo dell’interesse composto a livello planetario. Per inciso, non sono convinto della etimologia che riconduce l’origine della parola “etica” a “nicchia”; per me ethos vuol dire abitudini, costumi qualcosa di variabile con i luoghi. Insomma, etica indica il comportamento maggioritario di una comunità locale, prova ne sia che Cicerone ha creato il corrispondente termine latino “morale” basato su mores appunto costumi. Insisto su questo aspetto che potrebbe apparire una pedanteria perché rivendico un concetto di città elaborato nell’epoca classica e formulato letterariamente da Aristotele: la città è l’espressione della animalità umana, essa ha origine, ancorché inconsapevole, nell’istinto e non è frutto del calcolo utilitaristico. La città è come l’alveare o il formicaio, luoghi abitati da animali sociali. Per riassumere, credo che per contrastare l’omologazione del pianeta, la sventura più grande, occorre in questa parte d’Europa dove ci tocca vivere, fondare nuove città o rifondarne di antiche. Solo la città permette l’azione e la partecipazione collettiva per loro natura locali; solo la città permette di sottrarsi alla cattiva astrazione della crescita senza fine per riproporre l’ideale materialista della “buona vita”, di una vita che sia il tentativo di realizzazione dell’individuo, di una vita che valga la pena di essere vissuta. Tutto questo senza alcun ingenuo irenismo perché la città continua ad essere in potenza il luogo della guerra civile. Va da sé che bisogna portare la discussione sulla democrazia o, come dice Toni Negri, sulla democrazia assoluta. 


Di chi è la città?


Carlo: Non voglio evitare la discussione sulla democrazia diretta e sulla democrazia assoluta, mi preme però ritornare brevemente su alcune cose che hai voluto sottolineare. Partirei da quel fenomeno specialissimo, geograficamente circoscritto e di limitata durata temporale, che fu l’autonomia delle città greche dove si danno le condizioni per una vita urbana auto centrata e indipendente. In esse, di fatti, si crea una dimensione inedita di partecipazione dei cittadini, che rappresenta una rottura rispetto alla condizione di esistenza nelle “città dei dispotismi” e schiude certamente la via a nuove forme di vita sociale. Ma anche in questa breve fioritura della polis democratica la questione “di chi è la città” rimane costantemente aperta, perfino nell’Atene di Pericle l’unità della città è fittizia e il “popolo sovrano” non corrisponde certo al complesso degli abitanti. Le diverse forme assunte dalla polis, da quella aristocratica a quella democratica dei cittadini, rimangono nella sostanza strutture lontane dall’idea moderna di democrazia, in cui importanti fratture hanno separato gli abitanti per condizioni, ceto, genere. Comunque, nonostante queste divisioni, nella polis si affacciano per la prima volta nella storia “forme di appartenenza” sconosciute fino allora: il cittadino della polis è appassionatamente zoon politikon, la dimensione che in essa si costituisce è un modello non solo di partecipazione ma anche di circolazione di idee, e restituisce un’immagine di felicità urbana destinata ad esercitare suggestione fino ai tempi nostri, come ha mostrato in modo esemplare Hannah Harendt. La fitta rete relazionale della polis non si dipana unicamente all’interno dello spazio (mercantile – politico – culturale) dell’agorà ma è interessata di obblighi nei confronti della città, tra cui quello indispensabile di partecipare agli affari pubblici. In questo senso la domanda “di chi è la città” riceve qui per la prima volta una risposta precisa: è dei cittadini. La città, dunque, da sempre è il terreno in cui nascono i sommovimenti politici e forse quella del XXI secolo va ripensata in divenire, come luogo di rivoluzioni urbani possibili. Quale è allora il modello di città destinato ad affermarsi nel XXI secolo? E di chi saranno le città del futuro? Va da sé che lo spazio di azione delle amministrazioni locali si riduce,così come la loro capacità di giocare il ruolo di soggetti autonomi nell’arena della globalizzazione. La situazione attuale dei poteri globali riapre dunque la questione di chi è la città? Chi comanda al loro interno? Quali poteri la governano?


Franco: Provo a riassumere i nodi della nostra discussione. L’origine della città (Civitas, Polis) è nell’animalità dell’uomo, animalità sociale come quella delle api o delle formiche, potremmo dire che si tratta appunto di un istinto elaborato culturalmente, insomma appartiene alla sfera biopolitica. Non tutti gli animali sono sociali, anzi la maggioranza non lo è di certo. La nazione o l’impero non sono forme biopolitiche in senso proprio. Un agglomerato non è una città così come non lo è Babilonia. La città libera e sovrana la si ritrova nella storia occidentale come in quella orientale – non v’è solo la testimonianza greco-romana e poi la fioritura medievale dei comuni; anche in Cina si assiste ad un ciclo millenario, grosso modo, nel quale le città nascono e la biopolitica in senso proprio si diffonde per poi perire nell’astrattezza centralizzatrice dell’impero. Per molti versi si può dire che la città è un luogo proprio mentre lo stato nazionale o l’impero sono non luoghi. A riprova di questa affermazione, basterà ricordare che la natura di città come collettività di cittadini – la parola città viene etimologicamente dal termine cittadino e non viceversa – si dispiega nel tempo, nel senso che la città ha una storia e  la ha perché persiste nel luogo della sua fondazione. Il punto di vista del luogo e della coscienza del luogo permette d’affrontare alcune delle questioni epocali alle quali tu fai cenno. Così il movimento dei migranti potrebbe dirigersi verso i ruderi enigmatici, le città europee abbandonate – il Mezzogiorno italiano è ricco di simili siti. Le città europee – non le megalopoli o post metropoli che sono il contrario della Polis – possono essere investite da quel ritorno alla politica cioè alla partecipazione che proprio la globalizzazione favorisce suo malgrado producendo tempo libero tramite l’innovazione a risparmio di lavoro. Così la città può trasformarsi in una confederazione di città ovvero una federazione di quartieri; dimensioni queste che sole permettono l’esercizio della democrazia diretta, quella dei corpi in presenza e non già il rapporto virtuale del web. Per chiudere senza concludere, cito una frase di Hobbes che a suo modo di città se ne intendeva: un cittadino è libero solo se la città dove vive è libera.


La degenerazione contemporanea della città


Carlo: Per più di vent’anni, come molti urbanisti confermano, si è giocata nella città neoliberale una folle partita a Monopoli che ha man mano assunto vari nomi e aspetti: dalla gentrification alla privatizzazione degli spazi pubblici, dai mutui subprime alla finanziarizzazione della rendita urbana, dai Piani Urban fino alle forme ambigue di intervento misto (pubblico-privato) di “rigenerazione urbana”. Tale processo di gestione neoliberale della città, ha avuto come conseguenza non solo un rimescolamento delle popolazioni, che ha cambiato le “mappe sociali delle città”, ma anche uno “smarrimento” ed in dei casi una distruzione delle esperienze delle città come “luogo comune”. In altri termini, le politiche urbane neoliberali hanno affrontato lo spazio cittadino come una sommatoria di edifici privati, da un lato, e come uno spazio da finalizzare alla crescita economica dall’altro. Ciò ha generato situazioni paradossali: intere generazioni escluse dal mercato del lavoro; realtà urbane sempre più compartimentate e separate; forme di esclusione sociale e spaziale perversamente intrecciate (come lo spostamento dei poveri ai margini e la museificazione dei centri cittadini); difficoltà di funzionamento dei servizi fondamentali, eccetera. Nel corso di queste trasformazioni le retoriche sulla sicurezza urbana hanno acquistato sempre maggiore credito, hanno pervaso la mentalità dei cittadini e sono servite a erigere barriere visibili e invisibili, cosi come hanno legittimato l’introduzione di polizie private e di numerosi nuovi dispositivi di sorveglianza e controllo. Da questo punto di vista la città neoliberale, molto più di quanto non lo fosse la città industriale, è una città divisa, una città di pochi e per pochi.

Franco: Concordo con te sulla degenerazione della città in epoca neo liberale. A mio parere tuttavia non è stata l’ideologia neo liberale a corrompere le città fino qualche volta a distruggerle; piuttosto viceversa, col trasformarsi di molte città in nodi di flussi di merci, di non luoghi – come gli aeroporti – si è affermata l’etica politica neo liberale, che poi è quella stessa che sta all’origine del capitalismo, nella fase dell’accumulazione primitiva. Certo che sono accadute nuove cose, le città hanno una natura processuale, non sono triangoli, quindi mutano, hanno una storia. L’innovazione  tecnologica a risparmio di lavoro e soprattutto l’unificazione del mercato mondiale hanno soffocato l’anime dei luoghi omologando le diversità fino a creare il disordine planetario dentro il quale viviamo. In altri termini, mai come ora si è perduto il sentimento dell’abitare un determinato luogo, d’essere cittadini di una qualche città – oggi si è produttori occupati o disoccupati e massimamente consumatori nel mercato mondiale. È intervenuta una sorta di salarizazzione universale dell’umanità, che si manifesta nella lingua dell’economia politica come credito, debito, PIL e così via. Dentro questa dimensione finanziaria, astratta e totalitaria quanto altri mai – malgrado sia zeppa di dispositivi burocratici – è stata catturata una parte importante della stessa opposizione anti capitalistica, come testimonia paradossalmente la rivendicazione del reddito planetario garantito. In questo scenario, il ritorno alla città o, come suol dirsi in modo inappropriato, il diritto alla città costituisce una alternativa etica-politica, una sorta di materialismo geografico in contrapposizione alla smaterializzazione, carica di sofferenza, che il capitale mondiale produce e riproduce. Non si insisterà mai abbastanza sulla potenziale concretezza della città, sul suo riflettere, tramite le vie e le piazze, i corpi umani e la loro mobilità. Si pensi alla tematica ambientalista riguardata dal punto di vista della città: l’autonomia implica la sovranità alimentare e quindi, come già aveva osservato Gramsci, la ripresa del rapporto città – campagna che può permettere il sottrarsi all’agricoltura industriale e allo stravolgimento del paesaggio che quest’ultima comporta. La città – non la megalopoli – ha la dimensione appropriata per autogovernarsi attraverso l’assemblea di quartiere e gli istituti della democrazia diretta, rendendo potente l’amministrazione proprio perché condivisa e incentrata sui problemi della vita quotidiana, sulla biopolitica e non già sulle fantasticherie, qualche po’ paranoiche e corruttibili, della geopolitica. Ancora: per via dello sviluppo capitalistico dell’automazione il lavoro salariato è destinato nel medio periodo a contrarsi drasticamente e il tempo libero si dilata come non mai; e pur tuttavia questa condizione felice può presentarsi  nelle sembianze della sciagura se non si sa come impiegare questa libertà. La forma della democrazia comunale è in grado di offrire una possibilità d’impiego del tempo libero, impiego che realizza naturalmente – assai più efficacemente che la scuola – la formazione di cittadini consapevoli e responsabili. Per chiudere senza concludere, forse nel tardo capitalismo, per tutti coloro che non hanno smesso di aborrirlo, bisognerebbe sostituire, in qualità di concetto egemone, alla coscienza di classe la coscienza di luogo, come accadeva nella fase precapitalistica. Schiudendo così le tonalità emotive che s’accompagnano alla coscienza del luogo; tonalità che rendono l’idea di città un vero e proprio mito; che come tale si sottrae ad un giudizio di verità giacche la sua verità la trova nel successo o nell’insuccesso dell’azione; giusto quel che è accaduto agli operai del secolo appena trascorso con il mito dello sciopero generale.


Sul reddito garantito


Carlo: Nelle tue riflessioni ci sono ottimi input per continuare a “tessere”. Tra i molti vorrei qui soffermarmi sulle tue constatazioni rispetto al reddito planetario garantito, che abbiamo affrontato insieme in altre discussioni pubbliche e che, fuori da ogni metafora, mi incuriosisce. Gioco al rovescio: preciso alcuni passaggi sul mio punto di vista su questo argomento per meglio capire il tuo. Come ben sai la produzione capitalista è produzione di denaro a mezzo di merci e necessita pertanto di una anticipazione monetaria per poter avviare l’attività di trasformazione materiale delle merci che sia in grado, successivamente nella fase di circolazione e realizzazione, di trasformarsi in un profitto monetario. Alla funzione di “unità di conto”, di scambio e di misura della ricchezza (equivalente generale), la moneta assume anche la funzione di moneta-credito. La disponibilità di moneta-credito, vale a dire di un finanziamento iniziale, è condizione propedeutica non per produrre sulla base di un comportamento routinario, ma per ampliare ed estendere il livello di produzione e di generazione di sovrappiù. In altre parole è “moneta di nuova creazione” che entra nel processo economico e gli da dinamismo e permette la sua metamorfosi continua. Da questo punto di vista, unitamente al progresso tecnologico, il denaro e le macchine sono i motori dello sviluppo capitalistico e della continua ridefinizione della gerarchia capitale/lavoro. La possibilità di disporre di moneta-credito segna così il discrimine economico tra chi detiene i mezzi di produzione e chi solo la propria forza-lavoro. Il rapporto di debito/credito ha come oggetto il tempo (il ponte tra presente e futuro, nelle parole di Keynes) ed una “promessa di restituzione” da cui ha origine il “tasso di interesse”, che varia in funzione della rischiosità e della durata del prestito. Ne consegue che la sostanza del potere capitalistico della moneta sta nel suo essere fonte di discriminazione tra capitale e lavoro, quindi nella sua funzione sociale di divisione in classi. Tale funzione tocca il suo apogeo nel compromesso fordista in cui la disponibilità di moneta-credito di nuova creazione definisce la proprietà dei mezzi di produzione, mentre la disponibilità al lavoro garantisce la cittadinanza e il godimento dei diritti civili dei salariati. Per i salariati la disponibilità di moneta è comunque residuo, esito del processo lavorativo, è reddito. Alla luce di queste considerazioni, mi sembra che diventa necessario slegare la “disponibilità di moneta”, cioè di reddito, dalla “disponibilità di lavoro”. Separare “reddito” da “lavoro” significa, da questo punto di vista, disinnescare uno degli elementi portanti del “potere della moneta”: essere aprioristicamente disponibile solo per chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò ovviamente non modifica le modalità del rapporto capitale/lavoro, in quanto non viene intaccato il potere di gestire in modo unilaterale l’attività produttiva e la tecnologia, ma favorisce quel processo di liberazione degli individui dalla schiavitù del lavoro e dal ricatto del bisogno. La rivendicazione di reddito garantito è pertanto strumento di contropotere monetario, non capisco come ciò può essere vista come una “cattura di opposizione” al potere capitalista.


Franco: Apprezzo il fatto che tu abbia inserito il tema del denaro e di conseguenza la capacità di battere moneta sovranamente – se questo si verificasse la terza natura del denaro – la sua capacità di creare denaro tramite l’interesse composto. A questo  punto della nostra conversazione, dove molte sono le considerazioni che concordano e solo poche divergono possiamo difatti presentarla come una riflessione sull’avvenire delle città – non delle megalopoli – nel processo di unificazione del mercato mondiale destinato a durare a lungo. Vorrei ricordarti per lealtà che non pretendo nessuna scientificità per ciò che argomento, piuttosto mi sento posseduto dal mito delle città sovrane quasi fosse una religione. Un ultima considerazione, in questa nostra conversazione ho sempre cercato di stare in risonanza con il tema delle città intese come luoghi di realizzazione dell’individuo sociale – quell’individuo per dirla con Marx, dalla coscienza enorme all’altezza della specie. In questi anni a partire dall’esperienza fatta insieme al Comune di Cosenza, ho cercato di sostituire alla coscienza di classe quella del luogo – senza tradire quei sentimenti che da giovani ci avevano portato a meticciarci con gli operai.


L’esperienza municipalista cosentina e il neomunicipalismo


Carlo: A questo punto della nostra discussione vorrei dare attenzione a quella esperienza municipalista cosentina rintracciabile durante la sindacatura di Eva Catizone (9 giugno 2002 – 18 gennaio 2006). Molti sono stati gli elementi di discussione pubblica che hanno contribuito a determinarla sin dalla fine degli anni ottanta e dalla nascita dell’Associazione “Ciroma”, che ha avuto un ruolo non solo di primogenitura nell’avviarla. Per citarne solo alcuni tra i più condivisi: l’economia dello sviluppo capitalistico comandata dall’imperativo di produrre per il mercato mondiale; l’astratto produrre per produrre che ha indotto dei consumi superflui nelle abitudini quotidiane, eccetera. Insomma, un processo produttivo astratto era sotto accusa, in quanto autonomo dai desideri e dai “bisogni locali” e generatore di quelle astrazioni indeterminate che sono i concetti di “progresso dell’umanità”, di “diritti universali del cittadino”, eccetera. Tutte “mostruose illusioni cognitive”, come tu stesso amavi definire: finte stelle che scintillano su una realtà di merda, ovvero su una vita quotidiana nella quale si assiste alla mutilazione della facoltà di agire in comune. Per dirla tutta, in gergo cosentino, una generale condizione di viilienza. La città di Cosenza, la Calabria, il Meridione in generale, dunque, che non necessitano dell’apporto del mercato globale. Riproporre la questione dello sviluppo del Sud, voleva dire per tutti noi, nella misura in cui esso si realizzava, accentuarne il malessere. Il Meridione, invece, aveva bisogno di ritrovarsi, di ricomporre, come molte volte sottolineavi, le qualità che dormono latenti nel suo seno. Si doveva, preliminarmente, rivisitare criticamente quei “luoghi comuni” annidati nella mentalità di noi stessi meridionali che ci portavano verso una rappresentazione del Sud come “sviluppo mancato” riproponendo, per l’ennesima volta, di colmare il ritardo. Il feticcio dello sviluppo che non fa che alimentare quel sentimento di accidia, di disprezzo verso se stessi, che tanta parte ha nell’impotenza ad agire che contraddistingue il Meridione d’Italia, ridotto a malato da curare a carico dello Stato Nazionale o dell’Unione Europea.
Dopo il seminario di Porto Alegre (gennaio 2002), che vedeva in atto da parte di molti comuni italiani un processo di individuazione sulle possibili strade innovative e alternative alla democrazia, c’è nel nostro paese un tentativo di rilancio del rapporto tra democrazia diretta e rappresentanza, incentrato sull’attivazione di “istituti intermedi di partecipazione” per le decisioni strategiche e circa le politiche concrete dei governi locali. La democrazia municipale, dunque, è stata posta come alternativa al “governo gerarchico”, come modalità di autogoverno locale. La democrazia municipale viene peraltro definita come “una diversa forma della democrazia”: sostanziale, includente, attiva. Ciò comportava che tutti quegli attori protagonisti di tale processo (enti locali,circoscrizioni,associazioni,singoli cittadini, politici, militanti, intellettuali, eccetera) dovevano impegnarsi ad attivare “processi partecipativi costituenti”. I Comuni, se impegnati nell’apertura di ogni possibile spazio pubblico, sarebbero potuti diventare supporto per le esperienze di autorganizzazione dei soggetti sociali che consideravano i conflitti come possibili generatori di partecipazione e di democrazia. L’orizzonte della democrazia municipale veniva così ad indicare un’altra prospettiva di sviluppo, inteso come valorizzazione dei caratteri distintivi del territorio e attivazione delle energie endogene dei soggetti locali autorganizzati. Va da sé che vengono così posti al centro della discussione questioni sostanziali come quella dell’autovalorizzazione dello sviluppo locale. Dopo questo breve excursus la domanda che ti faccio è la seguente: mi puoi parlare dell’esperienza municipalista cosentina indicando quello che secondo te è stato il meglio e il peggio di quela esperienza? Aggiungo, puoi anche sottolinearmi, brevemente, i caratteri di novità che ci sono nella ripresa di esperienze del neomunicipalismo in campo europeo ed anche nel nostro paese?


Franco: Per rispondere alla tua prima domanda, direi che il limite etico-politico dell’esperienza di democrazia diretta, tentata a Cosenza all’inizio degli anni duemila, è stata la natura giacobina – l’idea che l’autogoverno dei quartieri e quindi l’autogoverno del comune, la libera sovranità del comune, potesse avviarsi tramite la burocrazia, in questo caso la macchina dell’assessorato ed un manipolo di militanti ciromisti. In altri termini, in quei mesi a Cosenza, l’esigenza dell’autogoverno dei quartieri nella forma assembleare non veniva dagli abitanti dei quartieri stessi, se non in una misura del tutto irrisoria, piuttosto era, per dir così, un piccolo partito – Ciroma ed i suoi scarsi alleati – a farsi carico del tentativo, imponendolo in buona misura, per altro senza riuscirvi, attraverso pratiche inevitabilmente amministrative, non prive di una sorta di autoritarismo maldestro. Quanto sopra osservato non comporta che quella breve stagione della vita civile cosentina sia stata inutile o dannosa, al contrario il suo fallimento è entrato come esperienza nella memoria comune, una sorta di sconfitta che ha aiutato la crescita della coscienza collettiva, imparare dai propri errori è il sentiero segreto che porta alla realizzazione.
L’altra questione che poni è quella relativa alla fase che attraversa il movimento municipalista in Europa: si può dire, in prima approssimazione, che il potere alla città è la forma che assume la lotta contro l’organizzazione del sovra stato, quello dell’euro. Anche i pericoli per la pace sono affrontati alla radice dai limiti intrinseci  della sovranità della città; perché le armi di distruzione di massa richiedono per il loro stesso esistere le  dimensioni mostruose dei dispositivi statuali. In particolare, un passaggio decisivo si presenta per il movimento municipalista in Europa: il superamento del referendum o plebiscito come forma mistificata di democrazia diretta. L’elettore in quanto individuo autonomo, costituisce, come ha osservato lucidamente Bookchin, l’unità elementare della pratica referendaria nella teoria neo liberale; ma si tratta di una finzione tanto in un contesto apparentemente democratico, quanto in uno scenario totalitario di mobilitazione di massa. L’individuo, libero da tutto, lasciato al suo destino in nome dell’autonomia e dell’indipendenza, diventa un essere asociale la cui libertà è privata dai tratti vitali propri della individualità autentica. A ben vedere il referendum o plebiscito è una variante semplificata del sistema della rappresentanza; laddove l’istituto fondante della pratica dell’autogoverno  è l’assemblea dei cittadini.