Per l’inchiesta sugli studenti e le trasformazioni dell’università

di FRANCESCO MARIA PEZZULLI (in Effimera.org, aprile 2016)

Dopo l’articolo sulla “buona scuola” di Matteo Renzi a firma del “Gruppo di discussione per la ripresa di un movimento antagonista nelle scuole e nelle università”, pubblichiamo alcune linee guida di un’inchiesta sugli studenti nelle università italiane avviata dal Laboratorio di Sociologia dell’educazione e delle culture di Roma 3 e dall’Associazione sudcomune

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  1. Se confrontiamo uno studente che si è iscritto in una università italiana negli anni ’90 con un altro studente iscrittosi nell’anno accademico in corso, ad una prima osservazione diremmo che si tratta di soggetti molto differenti, con poco o nulla in comune. La stessa percezione che hanno di se stessi in termini di ruolo sociale è cambiata radicalmente, cosi come radicalmente è cambiata l’università che li ha immatricolati. Negli anni ’90 ancora si trattava di frequentare corsi, in genere di poche ore settimanali, e seminari di ricerca e approfondimento, in genere non obbligatori. Nel primo biennio si studiavano le Dopo i primi materie fondamentali, dopodiché era possibile concepire un piano di studio individuale, oppure scegliere tra gli indirizzi consigliati dal Corso di Laurea. Per laurearsi ci volevano mediamente cinque anni di studio, nei quali bisognava affrontare tra le venti e le trenta prove d’esame, per superare le quali con buoni voti necessitavano in genere due-tre mesi di studio quotidiano. Al termine degli esami, il lavoro di tesi (nonostante l’acquisizione del diploma di laurea avvenisse formalmente attraverso un colloquio non obbligatorio) durava un anno circa ed era considerato dai più come il momento nel quale si mettevano alla prova – su un tema specifico – le conoscenze acquisite durante il percorso. Uno studente di oggi ha un percorso studiorum diviso in due corsi di laurea distinti: breve e magistrale. Non ci sono più i corsi annuali ma di sovente si tratta di moduli In ogni semestre sono previste almeno cinque prove d’esame, per le quali possono bastare, mediamente, una decina di giorni di studio. I successivi dieci giorni sono dedicati a preparare un’altra prova, un’altra materia, e cosi via, fino al raggiungimento dei crediti previsti per passare all’anno successivo. Il piano di studiscelto in autonomia non esiste più, sono sopraggiunti stage e tirocini da svolgere presso imprese mentre il lavoro finale di tesi è stato sostituito da una relazione definita con disinvoltura tesina … di 40 pagine. In generale, nessuna tra le cose centrali della vita accademica sembra rimasta al suo posto. Potremmo continuare lungamente con le differenze tra i due periodi presi in considerazione: l’autorevolezza dei professori, che scema insieme alla qualità dei corsi e delle singole lezioni; il livello di socializzazione interno alle facoltà sempre meno esteso; il sistema di valutazione dei docenti e degli studenti affidato a indicatori quantitativi di quanto meno dubbia affidabilità, eccetera. Insomma, il recente passaggio storico che abbiamo vissuto e che abbiamo convenzionalmente definito come passaggio alla fase post industriale del capitalismo è avvenuto (e come potrebbe non essere) anche nelle università e dunque nel corpo sociale degli studenti e dei docenti. Per enfatizzare potremmo dire che questo passaggio è avvenuto attraverso le università, perché in queste ultime si modella e si “produce” la forza lavoro immateriale, centrale del passaggio anzidetto e fondamentale in ogni processo e branca produttiva.
  2. L’inchiesta sugli studenti che il Laboratorio di Sociologia dell’educazione e delle culture di Roma 3 e l’Associazione sudcomune stanno portando avanti si occupa fondamentalmente dell’odierna produzione di soggettività studentesca: come questa oggi avviene, quali soggetti ci restituisce, quali obiettivi (consapevoli o meno) persegue e quali condizioni tende a determinare. Ci chiediamo tra l’altro dov’è finito lo studente che sceglieva il percorso di studi in base alle proprie passioni e curiosità conoscitive? E dove è finita l’università di quest’ultimo, l’istituzione che originariamente conservava il sapere come un patrimonio comune, la cui ragione sociale consisteva nel riconoscere e liberare la vocazione di ciascuno, come è stato scritto: «il demone che dorme latente in ogni essere umano»? Ci chiediamo inoltre cosa è diventata per noi (che in modo o nell’altro abbiamo vissuto e continuiamo a viverci dentro) l’istituzione universitaria? Val forse la pena abbandonarla? Oppure ci sono ancora ragioni per reinventarla, per scommettere nuovamente su quei principi originari di cooperazione tra studenti e docenti che agisce la conoscenza come il più comune dei beni.
  3. Il primo aprile del 1998 il Professor Berlinguer su la Repubblica rispondeva alle contestazioni degli studenti che ritenevano “aziendalista” la Riforma del Magnifico di Pisa (il 3 + 2): «si tratta di un piccolo gruppo di studenti che ha ideologizzato il problema della riforma universitaria (…) ma la riforma è fatta per loro, per renderli competitivi in Europa». Da quel momento in poi a uno studente non è più bastato essere preparato e competente, non sono più state esclusivamente le sue facoltà cognitive e abilità tecniche ad essere valutate, ma anche le sue performance sociali, nello specifico le sue abilità competitive. Gli studenti sono diventati competitivi mentre intorno a loro l’università cambiava sotto i colpi delle ministre berlusconiane, che nel trascorso decennio (insieme alla breve ed inefficace parentesi di Fabio Mussi al vertice di Viale Trastevere) sono riuscite a piegare in termini strettamente aziendalisti quello che nei proclami della sinistra doveva rappresentare la modernizzazione europea dell’università In questo periodo, tra una Riforma e l’altra, le esperienze di autoformazione ed inchiesta che si sono moltiplicate fuori e dentro le università (penso alle università nomadi, popolari, metropolitane) sono state molto importanti perché si sono costituite sulla cooperazione e messa in comune dei saperi, in alternativa alla deriva verso la quale l’università cominciava ad avviarsi. Nei casi migliori si è trattato di esperienze che hanno favorito (e continuano a favorire) processi di soggettivazione alternative ai valori ed alle pratiche dell’università aziendale e del merito.
  4. Di quest’ultima la nostra inchiesta intende ricostruire il “quadro” (per attori, ruoli, funzioni, attività, eccetera) e individuare le strutture relazionali di fondo. Per quanto riguarda invece le norme (formali e informali) che regolano la vita universitaria intendiamo cogliere le funzioni “dispositivo” che queste svolgono e il loro nesso ideologico. In generale, gli obiettivi dell’inchiesta sono tre:a) rilevare la composizione sociale degli studenti e le loro caratteristiche soggettive. Si tratta qui di utilizzare gli strumenti classici della ricerca sociologica di stampo qualitativo. Di intervistare in profondità, in modo focalizzato o informale gli studenti e altri soggetti significativi del mondo accademico. L’intervista è uno strumento utilizzato per “vedere insieme” agli interlocutori, per stabilire con loro un rapporto tutt’altro che neutrale, intersoggettivo, di fiducia, potenzialmente fondato sulla reciprocità.b) descrivere l’attuale assetto del sistema accademico dal punto di vista degli attori, delle funzioni e delle attività; da un lato, e dei meccanismi di riproduzione del potere accademico dall’altro. In questo caso il metodo seguito è analitico. Si tratta di ricostruire le dimensioni principali del “sistema” accademico a partire dalle politiche da cui è investito e dall’impatto che queste hanno sugli studenti, sulla struttura complessiva dei ruoli e dei meccanismi di riproduzione del potere accademico.c) favorire processi di (contro) soggettivazione tra gli studenti e il corpo docente strutturato e precario. Se ai primi due obiettivi sono affidate le sorti conoscitive, sociologiche, dell’inchiesta da quest’ultimo dipende la sua politicità. Il metodo seguito in questo caso è quello della “conricerca”, che permette di intrecciare continuamente i ruoli di intervistatore e intervistato, di scartare eventuali preconcetti e presunzioni accademiche, di mettere in comune i saperi e le esperienze delle singolarità coinvolte nel lavoro d’inchiesta. Questi tre obiettivi sono legati come parti di un unico lavoro, che da un lato favorisce la comprensione dei soggetti e delle tendenze in atto e, dall’altro, si pone come veicolo di partecipazione e soggettivazione.